Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

martedì 7 novembre 2023

Dino Piana, la vita in jazz

 

Nella notte fra domenica e lunedì scorso si è spento il trombonista Dino Piana, una colonna del jazz italiano. Per ricordarlo, pubblichiamo un’intervista che gli fece Enrico Rava in occasione dell’uscita del disco, che li vedeva protagonista insieme “Al gir del bughi”. L’articolo a cura di Roberto Peciola  uscì nell’aprile del 2021 su “Alias” l’inserto culturale de’” il manifesto”


INCONTRI/UNA CONVERSAZIONE TRA IL TROMBONISTA PIEMONTESE E ENRICO RAVA

«Al gir dal bughi» è un nuovo disco e l’inizio di una lunga storia. Ripensando a Mingus

Dino Piana, novantuno anni portati alla grande, con una voglia infinita di fare quello che sa fare, suonare quel trombone che lo accompagna fin dalla adolescenza. Una passione che lo ha portato a registrare ancora un disco, Al gir dal bughi, un lavoro fortemente voluto e spinto dall’amico di sempre, Enrico Rava, di «appena» dieci anni più giovane, e dal figlio Franco. Per farci raccontare l’album, ma soprattutto una vita «in jazz», ci siamo affidati a una conversazione – rigorosamente «a distanza» – proprio tra i due grandi «vecchi» del jazz nostrano, eccone un resoconto.

Enrico Rava: Cominciamo a parlare del titolo del disco, la gente si chiede cosa cavolo voglia dire Al gir dal bughi.

Dino Piana: È una storia che conosci bene, parliamo di 62 anni fa. Mi trovavo a Torino e mio fratello mi disse che aveva sentito che da qualche parte stavano suonando jazz, e che sarei dovuto andare a farmi sentire. Gli risposi che non se ne parlava, figurati, non avevo neanche la custodia per il trombone, che faccio, me lo metto sotto il braccio? Alla fine mi convinse e una domenica mattina andammo, mi tremavano le gambe. Quando siamo entrati tu mi sei venuto incontro dicendomi, «Ah, un trombone a pistone, come Bob Brookmeier!». Capirai, io non sapevo neanche chi fosse Brookmeier e sono andato in palla, poi quando mi proponesti di suonare un blues avrei voluto morire, non conoscevo nulla, non lo avevo mai suonato e ti chiesi cosa fosse il blues. Tu ti girasti verso il pianista, Maurizio Lama, con uno sguardo come a dire «eccolo qua, abbiamo il pollo!». Lama mi fece sentire qualcosa e io dissi: «Ah, ma è al gir del bughi», è il giro del boogie-boogie! Iniziammo a suonare e io feci un solo, poi due, poi tre e quando finii mi avete abbracciato. Da allora tutte le domeniche mattina venivi a prendermi a casa e conoscesti Franco che allora aveva un anno o due, ricordi che sulla culla c’era una trombetta?

E.R.: Mi fa sorridere il fatto che dopo sessant’anni lo chiami ancora boogie boogie, è boogie-woogie!

D.P.: Sì, ma noi lo chiamavamo booggie boogie…

E.R.: Sai perché ti abbracciammo? Perché noi eravamo dei maldestri dilettanti, io avevo vent’anni e avevo comprato una tromba da un paio d’anni, Maurizio suonava «abbastanza» bene il piano e tu sei arrivato senza sapere nulla, non avevi mai suonato il jazz ma facesti un solo incredibile. A farti conoscere il jazz però ci pensò Luisa, tua moglie, con la quale hai passato tutta la vita…

D.P.: Sì, allora pensavo di suonare jazz, ma era solo musica da ballo. Un giorno Luisa mi disse che se fossi andato da lei, una sera mi avrebbe fatto ascoltare una radio tedesca che trasmetteva musica per le truppe Usa in Germania. Andai, quella sera c’erano Dizzy Gillespie e Charlie Parker, era una cosa da matti… «Ma cos’è ’sta roba?», le dissi, e lei: «Questo è il jazz». Ogni volta che trasmettevano andavo da lei e così cominciai a provare quelle cose, suonavo free per conto mio. Questo fu il mio primo incontro con il vero jazz.

E.R.: Poco tempo dopo quel nostro incontro partecipasti con un gruppo che credo si chiamasse Quintetto o Sestetto di Torino, alla Coppa del Jazz, un concorso che faceva la Rai in quegli anni, e vincesti come rivelazione. Subito dopo ti volevano tutti i grandi musicisti europei…

D.P.: Non so nemmeno io come andò. Dopo la Coppa del Jazz venni contattato da Romano Mussolini che mi offriva di entrare nel gruppo che avrebbe dovuto accompagnare Chet Baker alla Bussola. Anche lì pensai di non andare, Baker era troppo per me, ma Luisa mi convinse dicendomi che era un’occasione unica, a cui non potevo rinunciare. Accettai e mi ritrovai al fianco di quello che consideravo un dio, lo amavo e lo amo tutt’ora perché… beh, lo sai perché. Feci tutta la stagione con lui e imparai moltissimo, ma all’inizio fu dura. Quando ci siamo trovati al pomeriggio per stilare una scaletta, per conoscerci, ci accordammo per partire con un blues, poi la sera, locale pieno, lui arrivò in ritardo, trafelato, prese la tromba, si girò verso di noi e disse: «Tune up». Rimasi come uno stoccafisso, non conoscevo quel brano, non lo avevo mai sentito, e decisi di non suonare… avrà fatto sei chorus uno più bello dell’altro e poi mi fa: «You don’t play?», e io «No, I don’t know!» Quella sera, fu tremenda, ma poi le cose si sono aggiustate e siamo diventati «quasi» amici, perché era amico di tutti e di nessuno, fu una grande esperienza. Da lì in poi ho suonato con moltissimi musicisti americani e non solo, Mingus, Gerry Mulligan, Thad Jones, Paco De Lucia, Maynard Ferguson, Lee Konitz, troppi per citarli tutti… Ultimamente ho fatto delle bellissime cose con Carla Bley e Kenny Wheeler, roba d’avanguardia con cui non mi ero mai confrontato.

E.R.: Ma la storia del tuo ingresso nella orchestra della Rai? Come hai fatto, senza neanche saper leggere la musica?

D.P.: Fu una cosa particolare. Gorni Kramer venne a sentire Chet al Bussolotto, alla fine del concerto mi si avvicinò e mi disse: «Bravo, suoni bene, mi piace. Io a novembre o dicembre dovrei fare una trasmissione in Rai e mi serve un trombone come te, che improvvisi. Ho un trombone bravissimo in orchestra, Mario Pezzotta, però uno come te mi piacerebbe”. Io avevo bisogno di un lavoro fisso, diventai rosso e gli dissi, con fatica: «Maestro, ma io non leggo la musica, come faccio a suonare in un’orchestra?». «Ma come non leggi la musica… Ma gli accordi che suonavi?», «Non lo so cosa suono», «Guarda, non mi importa, parlo io con Pezzotta e vedrai che ti aiuterà». Pensavo di non accettare ma anche quella volta a spronarmi fu Luisa, e così mi ritrovai a studiare con il maestro Pezzotta che all’inizio era un po’ perplesso ma pensava di riuscire a farmi suonare «a prima vista» se gli fossi stato vicino, ma non è mai successo!

Interviene Franco Piana: Ma poi con Mingus…

D.P.: Con Mingus è un’altra storia, Enrico, vuoi che te la racconti?

E.R.: E certo, siamo qua per questo!

D.P.: Ricordo che ricevetti una telefonata in cui mi dissero che c’era da fare una cosa con il più grande contrabbassista del mondo. Io per scherzo dissi, «Chi, Charlie Mingus?» «Sì, proprio lui!» «Ah, ok, non vengo!», figurati sapevo che era uno molto esigente e con un carattere particolare, e se un musicista non gli andava a genio lo mandava a quel paese. E lì di nuovo subentrò Luisa a spingermi ad andare, e io non volevo, conoscevo i dischi di Mingus e sapevo che il suo trombonista era fenomenale, e io cosa potevo andare a fare con il mio strumento a pistone, e invece… Arrivò con un cappello nero e il sigaro, metteva soggezione. Cominciamo a registrare e durante il brano mi fa cenno di andare, presi la plancia al volo e mi lasciò spazio; alla fine mi fece i complimenti, fu un’altra grande soddisfazione.

E.R.: Poiché siamo partiti da Al gir dal bughi, che è l’inizio della tua storia, dimmi qualcosa di questo disco, sei contento?

D.P.: Molto, perché non credevo di fare ancora un disco così, col mio nome, voi mi avete spinto a farlo e sono molto contento perché non è un disco combinato, Ci siamo ritrovati a registrare senza aver preparato nulla, siamo andati a ruota libera, col cuore. Ecco, è un disco fatto col cuore, un disco di jazz, se vuoi tradizionale, ma con tanta anima. Grazie a te Enrico e a Franco che mi tiene sempre sulla corda. Io suono tutti i giorni, se non suono sto male, è importante per me.

E.R.: Anch’io! Suono tutti i giorni, sono felice se sento che il labbro va, scontento se non va, mi sento in colpa se sto un giorno senza suonare, e non ci crede nessuno. Ma come? Mi dicono, tu alla tua età… Sì, lo faccio perché è quello che mi tiene in vita…

D.P.: Esatto, lo facciamo per noi stessi. Mica penso di mettermi a fare concerti a 91 anni – «li faremo», interviene Rava -, vabbè, speriamo. Io ho bisogno di farlo, di sentire il mio suono, perché viene da dentro, dall’anima. A volte suono anche brani vecchi, cose che mi ricordano Luisa, vado col pensiero e torno in quella sala da ballo, per esempio.

E.R.: Dino, è stato un piacere, spero che tu abbia detto tutto ciò che volevi, ma se vuoi dire qualcos’altro…

D.P.: No, voglio ringraziarti, è stata una bella cosa, grazie.

E.R.: Sono io che ringrazio te, ma tanto ci sentiamo presto.


lunedì 6 novembre 2023

Lettera agli ebrei italiani

 

Franco Lattes Fortini  (dal quotidiano il Manifesto del 05/11/2023)



Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida.

Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo e – nel medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele.

In uno spazio che è quello di una nostra regione, alle centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della forza-lavoro palestinese, settanta o centomila uomini – corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni israeliani che per tutta la loro vita, notte dopo giorno, con mogli, i figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare.

Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta complicità dei più.

Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta me ricordare.

 QUELL’ASSEDIO PUÒ vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte dell’opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande.

 Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.

 GLI EBREI DELLA Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità.

 Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana.

 L’USO CHE QUESTA ha fatto della diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, il rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.

 Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana e ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla.

Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli.

 Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani?

 Coloro che ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa – credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno.

Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida.

Né mentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.

 E SE ORA MI SI CHIEDESSE con quale diritto e in nome di quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi fanno da sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e storico, non in quel che con esso hanno ricevuto in destino.

 Mai come su questo punto – che rifiuta ogni «voce del sangue» e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e presente; sì che partire da questi siano giudicati – credo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o da quel che pare esserne manifestazione corrente.

 IN MODO AFFATTO diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a una estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene.

 Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli Americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà.

 Non rammento quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse e lo stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo Libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi.

 È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e alla vita di un verso di Dante o al senso di una cadenza di Brahms?

 LA DISTINZIONE fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri.

 Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.

 OGNI CASA CHE gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti.

 Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere.

 Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria.

 Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo «che danna un popolo intero intorno ad un patibolo»: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.

 LA NOSTRA VITA non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune.

 Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.

 E ANCHE in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io.

 Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi.

 Parlino, dunque.

 

* «Il manifesto» ha pubblicato questo testo la prima volta il 24/5/1989 e una seconda volta il 18 gennaio 2009. I problemi e le domande che pone restano ancora oggi aperti e immutati. Semmai «solo» aggravati.





venerdì 20 ottobre 2023

SI SFALDA LA NORMALITA' DELL'OPPRESSIONE OCCIDENTALE

 Luciano Granieri



Quando un processo  di oppressione operato da centri di potere sui popoli può dirsi concluso? Quando i popoli oppressi accettano la loro condizione. Una volta che tale rassegnazione è cristallizzata, o almeno sembra, il problema è risolto. Prendiamo la questione palestinese (non di Hamas) ma palestinese.  Dopo la varie fasi che hanno portato all’apartheid di quel popolo, rassegnato ad essere recluso  in una prigione a cielo aperto (Gaza),   ad essere il piccione, nel tiro al piccione perpetrato dall’esercito israeliano lungo il muro  di confine, rassegnato a subire le angherie dei coloni negli insediamenti illegali della  Westbank, supportati dallo stesso esercito  israeliano nelle loro scorribande distruttive ai danni di chi li abita legalmente,  la questione palestinese  sembrava risolta, o quantomeno anestetizzata.

 Le periodiche   spedizioni punitive israeliane nei territori, fra bombardamenti, uccisioni e soprusi vari, non indignavano più nessuno,  non trovavano limitazioni dalle   risoluzioni di condanna dell’ONU, completamente  ed impunemente disattese, senza che la comunità internazionale ne fosse minimamente toccata. Anche la parte araba, tutto sommato, si era convinta, che a fronte di un’occupazione e segregazione, ormai diventata quasi naturale non valesse la pena spendersi più di tanto per contrastarla. 

Nasceva  il patto di Abramo, fra Israele, Emirati Arabi, Bahrein , questi ultimi, prima  sensibili ai diritti dei palestinesi,  sacrificati, poi,  ben volentieri, alle ragioni del profitto. Un accordo avviato  da Trump, con annessa elezione dell’intera Gerusalemme  a capitale di Israele e proseguito da Biden. 

Tutto va bene madama la marchesa,  tutto tranquillo. Talmente tranquillo che il regime di, Netanyahu toglie i  battaglioni di controllo  al confine con Gaza, sostituendoli  con sistemi tecnologici di monitoraggio rivelatisi poi non così efficienti . L’esercito serve nei territori occupati, a Hebron,   per proteggere i coloni invasori nelle loro scorribande di distruzione di e sovvertimento della normale vita di coloro che quelle terre abitano. La normalizzazione, passa anche della delegittimazione politica di Abu Mazen, leader di Al- Fatah formazione di estrazione politica senza alcuna natura integralista, e  presidente  dell’ANP, istituzione nata e riconosciuta dopo gli accordi di Oslo che prevedevano la formula dei, “due popoli in due Stati”. Accordi , a parole,  voluti e auspicati  da tutta la comunità internazionale, ma nella pratica mai applicati, anche perchè, nel frattempo, lo Stati palestinese, inteso come confini, non esiste più.

Non è un caso, invece,  che Hamas, la forza integralista religiosa con la sua intransigenza reazionaria, sia rimasta in piedi,  legittimata anche dal  consenso elettorale. Apro parentesi: resta da capire perché il popolo vessato  oggi si rivolge a forze di stampo totalitario e integralista   per veder risolte le sue ingiustizie, non solo a Gaza, ma anche in Italia e forse in tutta Europa, oltre che negli Stati Uniti.  Infatti i  “razzetti” sparati ogni tanto,  da Hamas  verso Israele, che aveva, a quanto pare,  messo a punto un  sistema antimissile tale da intercettare ogni proiettile proveniente dalla striscia , da un lato non producevano troppi   danni, dall’altro rafforzavano l’immagine  vittimista dello Stato d’Israele attaccato per odio razziale e religioso dai terroristi antisionisti.  E, perciò,  legittimato  a difendersi attraverso devastanti  bombardamenti  a tappeto  dentro Gaza, utili, fra l’altro, a testare nuove armi. 

Ma la sopportazione, ha un limite. E gli estremisti reazionari di Hamas,  pretendendo di agire  anche in nome di quei  palestinesi  laici, che mai li hanno sopportati  perché  odiano  le guerra in nome di Dio, qualsiasi esso sia,  il cui unico desiderio è  una  vita libera e normale e che ripudiano  la violenza,    si sono organizzati all’interno del lassismo determinato da un letale, quanto erroneamente  assodato, status quo. In particolare hanno usato a loro favore i controlli telematici pianificati da Israele sulle comunicazioni fra gli  abitanti di Gaza. Hanno fatto credere a Netanyahu che la loro iperattività, iniziata da almeno un anno, fosse finalizzata al definitivo annientamento di Al-Fatah e non ad un attacco, con invasione oltre il confine.  Quelli  ci sono cascati  con tutte le scarpe. Per cui quando la  devastante operazione di guerriglia , portata  ai kibbutz, oltre il confine attraverso  i blitz delle milizie di Hamas,  è seguita inaspettata al lancio, molto più corposo,  di missili provocando morti in particolare fra i civili  e  la cattura di ostaggi, il governo d’Israele, e  tutta la comunità internazionale, si sono trovati  impreparati. 

Già,  gli ostaggi. Quelli  che secondo Netanyahu non devono, e non possono, costituire un impedimento alla grande vendetta contro Hamas, cioè possono anche essere uccisi. Si da il caso però, che i cittadini Israeliani che hanno loro congiunti fra gli ostaggi, e non solo loro,  non sono per nulla d’accordo e  stanno manifestando  contro il premier israleinano  e la sua esasperata voglia di vendetta. Così come tutti gli Stati che hanno notizia di loro concittadini  nelle mani di Hamas, sono completamente contrari ad un operazione occhio per occhio che prevede il sacrificio di altri occhi. 

Non solo,  tale spropositata  reazione, che fra l’altro potrebbe avere l’obiettivo non troppo nascosto, per Netanyahu, di perpetrare una nuova Nakba, successiva a quella del ’48 ed annettere  definitivamente la striscia di Gaza al controllo israeliano, sta indignando i novelli compagni del patto di Abramo che in nome della difesa della comunità araba variamente allocata, hanno sospeso gli accordi.  L’Iran sta valutando l’ipotesi di entrare nel conflitto, contro Israele e in molti Paesi monta la protesta contro il governo israeliano.  Il  crudele bombardamento dell’ospedale di Gaza e il tiro al bersaglio dei profughi palestinesi in attesa di passare il confine con l’Egitto chiuso all’ingresso dei convogli umanitari, stanno sempre più convincendo tutte le istituzioni (amiche e nemiche di Israele) che la riposta ad un attacco, per quanto efferato, non può essere il genocidio.  

I Cinesi e  i Russi,  non hanno condannato gli attacchi di Hamas, anzi, forse cercano di trarne vantaggi, anche se in passato hanno sopportato le  intemperanze israeliane a Gaza. Lo stesso Egitto teme una crisi umanitaria nell’ipotesi di dare asilo a milioni di profughi palestinesi provenienti da Gaza attraverso il valico di Rafah. Senza contare che anche  in Libano, infuria la guerra fra Hezbollah ed esercito israeiliano, con il sacrificio anche di giornalisti presenti per documentare lo scenario. Un corrispondente dell’agenzia Reuters è stato ucciso  dall’esercito d’Israele. Li, ricordiamolo, ci sono forze ONU d’interposizione fra cui contingenti militari italiani. 

Tutto ciò accade in un contesto internazionale in cui le vittime si sono stancate di essere tali anche nel Sahel, dove,  dopo la rivoluzione in Niger un’alleanza di Stati Africani (comprendente Mhali, Burkina Faso, Algeria) si è  mobilitata contro gli impulsi guerrafondai  della   Cedeao (Comunità Economica degli Stati d’Africa Occidentale) guidata dalla Nigeria, messa a guardia degli interessi occidentali. Proprio grazie a questa mobilitazione, la  minaccia portata della stessa Cedeao, supportata dall’occidente,  di reintegrare il vecchio leader deposto Mohamed Bazoum, guardiano degli affari occidentali, attraverso    una di quelle tante guerre  definite  necessarie  all’esportazione della democrazia,  è stata disinnescata. 



Paesi come Tunisia, Libia, prendono in giro i vari leader europei,  Meloni in primis, chiedendo soldi per svolgere il lavoro sporco e disumano di non far  partire gli immigrati secondo accordi che cambiano di minuto in minuto.  Giocano  sul fatto che la famosa Unione Europea, nata dai principi di Ventotene, è talmente ripiegata sugli interessi beceri e diciamolo pure “RAZZISTI” (non è un caso che per i profughi ucraini non esistono limitazioni di sorta)  dei singoli  Paesi, da non riuscire a mettere in piedi uno straccio di piano di accoglienza comune.  La pianificazione di una  redistribuzione degli immigrati, gestita secondo la loro volontà di approdo, consentirebbe ad ogni Paese membro  di governare una normale transizione migratoria insita nelle prerogative umane,  evitando di esternalizzare le frontiere , con lauti finanziamenti, spesso destinati a presunti capi di governo, criminali senza scrupoli . 

 La incandescente situazione in Medio Oriente, inserita nel contesto appena descritto, dimostra che sta crescendo un movimento popolare in Africa ed in Asia, che non ne può più di subire angherie da paesi occidentali e dai guardiani dei loro interessi come Israele o dittatorucoli tribali messi li apposta dagli esportatori di democrazia. Nemmeno le monarchie Arabe sono disposte a tollerare oltre certi atteggiamenti. Tanto loro non hanno problemi, fra un po’ si comprano l’America e l’Europa insieme grazie alle ricchezze accumulate proprio grazie alla  smodata fame di consumo di energia che una parte, peraltro minoritaria, del mondo non riesce a limitare.

 Infine sul   fronte interno ai vari Paesi, al netto di una rinnovata azione terrorista di schegge impazzite che ammazzano in nome di Allah,  monta la protesta contro il regime di Netanyahu e in solidarietà con il popolo palestinese (non con Hamas). Si sta rianimando  quell’internazionalismo, motore di tante proteste in difesa dell’autodeterminazione dei popoli , e in difesa della  pace, quella vera,  per anni sopito dalla normalizzazione. 

Il risveglio di una coscienza sociale internazionale, si appresta a ridestare    una nuova fase di rivalsa sociale nazionale . Sono da mettere nel conto i divieti a manifestare in solidarietà con la Palestina e  le reazioni, anche violente, degli apparati di Polizia a queste proteste che si allargano al contrasto delle politiche di devastazione  sociale che stanno  mietendo povertà in tutta Europa. 

Non tutto dunque è come prima, anzi, niente è come prima. Speriamo solo che finisca bene.



venerdì 26 maggio 2023

Debiti fuori bilancio per 10 milioni di euro. Il miracolo risanatore del nuovo sindaco di Frosinone

 


Luciano Granieri



Leggiamo dal Messaggero:

Debito di un milione per i rifiuti, nuova tegola sui conti: assunzioni a rischio al Comune di Frosinone

La condanna per il contenzioso con l'ex gestore Sangalli, il rosso dell'ente sale a 10 milioni di euro

Gianpaolo Russo, da l’edizione di Frosinone de “il messaggero” del 26/05/2023

"A pochi giorni dall'approvazione del bilancio preventivo (il Consiglio verrà convocato il 31 in prima convocazione così come prevede la normativa per poi consentire all'aula in seconda convocazione di affrontare il tema nella prima decade di giugno) spunta un altro debito. La sentenza è arrivata solo qualche giorno fa: il Comune deve pagare un milione di euro alla Sangalli spa, la società che gestiva l'appalto dei rifiuti. Il contenzioso, per servizi aggiuntivi richiesti e mai pagati, risale all'ultimo periodo della giunta Marini. Poi l'amministrazione Ottaviani decise di non saldare il debito. Così un altro macigno cade sulle casse comunali costringendo l'amministrazione Mastrangeli, che tra un mese taglierà il traguardo del primo anno di mandato, a rivedere i propri programmi. I sacrifici, diversamente da quanto promesso nell'ultima campagna elettorale, non sono ancora acqua passata.

«Anche il conto dell'ultima sentenza verrà inserita nella voce debiti fuori bilancio con le somme da accantonare da parte del comune- spiega l'assessore al Bilancio, Adriano Piacentini - L'amministrazione intende fare ricorso perché siamo sempre convinti che quelle fatture alla Sangalli non debbano essere pagate».
Il rischio, però, è quello di posticipare solo il pagamento del debito (con gli interessi destinati a crescere) nel caso in cui anche la Corte di Appello dovesse confermare il verdetto di primo grado. I debiti fuori bilancio crescono di mese in mese: l'ammontare complessivo si aggira intorno ai 10 milioni di euro.
LE CONSEGUENZE
Questo vuol dire meno soldi per gli investimenti, per le manutenzioni, per le attività culturali ma anche e soprattutto per le nuove e attese assunzioni previste ed annunciate nel 2023. Il piano assunzioni della giunta Mastrangeli prevedeva circa 70 unità da mettere in organico nel corso della consiliatura. Una decina dovevano avviarsi già quest'anno. Dovevano essere indetti i concorsi già a fine 2022 o al massimo primi mesi del 2023. Ma l'emersione di continui debiti fuori bilancio ha fatto slittare queste operazioni. Ora il piano rischia di saltare completamente per quest'anno ed essere posticipato nel 2024 dove secondo i primi intendimenti dovrebbero essere assunti circa 25 persone in vari settori. Servono impiegati amministrativi ma anche vigili urbani. In particolare nella polizia locale mancano all'appello 28 unità.
Intanto, ieri sera, si è svolto il Consiglio comunale che ha approvato delle delibere propedeutiche al bilancio consuntivo di cui se ne discuterà ad inizio giugno. Approvato il programma triennale delle opere pubbliche (dove sono stati inclusi anche risanamenti idro geologici), il programma biennale degli acquisti di forniture e servizi 2022-2024, l'approvazione del Dup (documento unico di programmazione), il regolamento per il contrasto dell'evasione dei tributi locali. Infine approvato anche il regolamento del Consiglio dei giovani".

CHE SORPRESA! COME MAI?

Ricordiamo che alla stesura del piano di riequilibrio economico e finanziario, concordato fra il sindaco allora appena insediato Ottaviani, e la Corte dei Conti, nel 2013, i debiti fuori bilancio ammontavano a 1.850.000 euro . I debiti fuori bilancio, ricordiamo, comprendono uscite per contenziosi legali, o per eventi inaspettati, imprevedibili (casca un edificio comunale)

Il Comune si era impegnato a ripianarli in tre anni dal 2013. Una parte, 950.000 euro, utilizzando in modo straordinario parte del fondo di solidarietà comunale. Forse il fondo solidarietà non dovrebbe servire per pagare gli avvocati, ma a fare altro. Per la seconda parte, di 900.000 euro, si rinviava ad un apposito, ed indefinito “Piano Rimborso Avvocatura” di durata triennale così composto: 150.000 per il 2013, 250.000 per il 2014, 500.000 per il 2015

Nell’articolo del messaggero, qui sopra riportato,  si legge che, dopo due consilature Ottaviani ed un primo anno da sindaco di Mastrangeli, i debiti fuori bilancio, crescono di mese in mese ed ammontano a 10 milioni di euro. Cioè dopo 11 anni di guida della città da parte della destra, il comune, in Piano di Riequilibrio Economico e finanziario, quindi soggetto al rispetto degli impegni di rientro, ha più che quintuplicato i debiti fuori bilancio? 

Alla faccia del grande risanatore dei conti comunali! 

Con questa virtuosa peculiarità l’attuale sindaco, ex assessore al bilancio della giunta Ottaviani, si era presentato agli elettori che -o perché creduloni, o perché le forze che si sono contrapposte a Mastrangeli non hanno svolto una incisiva campagna elettorale, smentendo la nomea del grande risanatore - lo hanno votato.

Ma in fin dei conti se la macchina comunale non funziona, perché, a causa di questi debiti, sono stati licenziati addetti, tagliati servizi, e oggi non si può assumere, non è un grosso problema. 

L’importante è conferire la cittadinanza onoraria ai giocatori del Frosinone. Tutto sommato , Grosso, Lucioni e compagni, hanno portato il nome di Frosinone nell’eccellenza della serie A, mentre da decenni la città non milita neanche in promozione.

venerdì 14 aprile 2023

LA RESISTENZA BEATIFICATA

 

(Pietro Secchia - Botte - in “Rivista storica del socialismo” n. 22 maggio-agosto 1964)

Mancano una decina di giorni al 25 Aprile, festa della liberazione dal nazifascismo. Viste le facezie sentite dai dirigenti governativi, temo altre dichiarazioni fuori luogo in vista della ricorrenza. Ma la presenza al governo di forze che si richiamano al fascismo, in modo più o meno velato, non è un caso. E’ il frutto di mancanze, sottovalutazioni, quando non convenienze a fornire letture improprie, incomplete della Resistenza. Dal bel libro "La Resistenza accusa 1945 - 1973" delle edizioni Mazzotta, di Pietro Secchia (dirigente comunista, dirigente partigiano, dirigente dell'ANPI), propongo un articolo scritto per il ventennale della Resistenza che vi consiglio di leggere non solo per la sua immutata attualità, ma principalmente come chiave per una corretta lettura della Resistenza; lotta non solo di avanguardie, ma di forze sociali, di uomini e donne, di operai, contadini e lavoratori, di città e di paesi, che maturarono una più avanzata coscienza democratica trasformando il fine della sconfitta del nazifascismo in programma per una società di pace, libera, uguale e solidale, come poi venne scritto nella nostra Costituzione. Un programma che Secchia lamentava non essere ancora attuato nel 1964. Non poteva sapere, ahimè, che ad oggi, 2023, non solo è rimasto inattuato, ma sta subendo una tremenda regressione. 

Luciano Granieri



Di seguito il testo: 

Cari compagni della “Rivista storica del socialismo”, ho fatto, in questi giorni, una scoperta sensazionale che mi costringe a cospargermi il capo di cenere e a scusarmi per la grave lacuna insita nel mio scritto sulla Fiat nel periodo della Resistenza, pubblicato nel n. 21 della vostra rivista. Ignoravo un grande testo, un’opera veramente monumentale, edita ben sedici anni or sono a cura dei grandi industriali, che porta nuova luce sul possente, decisivo contributo di questa emerita categoria al successo della Resistenza. I dirigenti dei più grandi monopoli, la Fiat in testa, sono stati tutti in prima linea nella lotta partigiana, e noi non lo sapevamo!

Un forte numero di questi uomini, ponendo risolutamente a repentaglio le proprie aziende, i loro averi, a volte e non poche, la loro libertà e la loro vita hanno completato, aiutato, integrato l’azione delle forze clandestine. In molti, infiniti casi, l’azione degli industriali a favore della Resistenza è stata così decisa ed aperta da apparire risolutiva e determinante. (Resistenza, Editoriale Italica 1948)” Non ci rimane che fare solenne ammenda e accingerci a rivedere molti giudizi, a rielaborare profondamente non soltanto lo studio sulla Fiat, ma tutta la storia delle Resistenza, poiché ad aver peccato, e ciò mi è di sollievo, siamo in molti e mi trovo in buona compagnia.

Avevamo, è vero, un pò tutti nei nostri studi tenuto in considerazione l’atteggiamento positivo e il contributo dato da un certo numeri di piccoli e medi industriali, alcuni dei quali pagarono con la vita il loro amore alla libertà. Ma non si tratta di questo. Ci eravamo dimenticati dei grandissimi industriali; ancor peggio, avevamo posto in cattiva luce il loro comportamento ed in genere quello dei gruppi monopolistici.

Molti di questi grandi capitani d’industria erano dei cospiratori, dei partigiani e noi lo ignoravamo. Essi hanno armato, finanziato la Resistenza, ridotto al minimo la produzione, organizzato il sabotaggio e gli scioperi nelle loro fabbriche, opposto coraggiosamente i loro petti al tentativo tedesco di deportare gli operai. Non c’è direzione di grande complesso industriale che non rivendichi “di essersi opposta energicamente” all’invio delle masse lavoratrici in Germania; ognuno dei dirigenti lottò sino alla fine  con forza e abilità”

L’errore nel quale siamo incorsi è veramente imperdonabile. Gli operai avviati a migliaia oltre il Brennero, a Mauthausen, a Buchenwald, negli altri campi della morte, non dovevano essere italiani, forse erano marziani.

C’è di più. In molti posti i combattimenti ebbero luogo all’interno degli stabilimenti o nelle immediate vicinanze ed i feriti erano ricoverati nelle infermerie delle aziende; il reciproco soccorso, l’affetto, l’amor di patria era uguale in industriali e partigiani.” Tutte cose da noi sempre ignorate, e tutte sono documentate fabbrica per fabbrica, cantiere per cantiere. Non c’era officina, a cominciare dalla Fiat, che non nascondesse  un comando partigiano, missioni alleate, stazioni radiotrasmittenti e riceventi, depositi di armi, servizi informativi, comitati di agitazione. Veramente questo era stato da noi documentato, ma con una grave omissione di fondo: non avevamo detto che tutto ciò avveniva per iniziativa, con il consenso ed il pieno appoggio dei grandi industriali.

Ignoravamo che “al mattino del 25 luglio il Sen. Giovanni Agnelli arrivò presto in ufficio e il suo primo atto fu quello di telegrafare a Badoglio per salutare a nome di tutta la Fiat il ritorno alla libertà e per mettere a disposizione del nuovo governo l’opera della Fiat ed il giornale La Stampa di proprietà della Fiat”. Ignoravamo che “il pomeriggio del 10 settembre alla Fiat si attendeva che da Roma si confermasse chiaro, risoluto, l’ordine della resistenza militare ai tedeschi. La cosa era possibile con l’appoggio del popolo. Il direttore generale della Fiat, professor Vittorio Valletta, si precipitò al comando militare ed ebbe con il generale Adami-Rossi un colloquio drammatico: bisogna opporsi, resistere, combattere, mandare contro le forze germaniche le nostre forze armate, sollevare la popolazione”.

Valletta si pone così alla testa dell’insurrezione nazionale, la lettura diventa, di pagina in pagina, sempre più avvincente. Sono elencate, ad una ad una, tutte le date in cui, nei 18 mesi di occupazione, Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta vennero dai tedeschi minacciati d’arresto, chiamati, alcune volte anche di notte, portati in certe ville dove si svolgevano fieri colloqui con i comandi tedeschi. Fortunatamente la scamparono sempre, ma ogni volta proprio per un pelo.

Proseguendo nella lettura troviamo tutti gli altri, i compagni Donegani, Farina, Mariotti, Pirelli, Rivetti, i Crespi del Corriere della sera, i dirigenti della Montecatini, delle Ferriere Lombarde, delle Officine Reggiane, dei Cucirini Cantoni Coats, dell’Isotta Fraschini, delle Officine Falck, della Dalmine, fior fiore dei patrioti al cento per cento. Non manca nessuno. E dire che siamo stati così ingiusti! Ma una qualche attenuante ci deve essere concessa, perché questi grandi industriali che hanno provveduto con un così grosso e ricco volume a fornirci tutte queste notizie, confessano che avevano in passato, per modestia, taciuto di “ avere svolto quella rischiosa attività in modo invisibile, quanto verrà qui esposto”, essi concludono, per molti apparirà una rivelazione. Il tedesco non bisognava affrontarlo, occorreva aggirarlo. Si può dire che tutta la lotta antitedesca si svolse con questa tattica giudiziosa, specialmente considerata oggi “.

E dire che noi e i nostri comandi partigiani non conoscevano una tattica così abile. Eravamo proprio degli scriteriati, sprovveduti dei principi più elementari dell’arte militare.

A parte le amenità, ritengo che il tema meriti di essere ripreso in modo sereno e pacato. Anche quel cumulo di facezie, di bugie, di invenzioni, di dati affastellati, ma non tutti falsi, ha il suo interesse. Le menzogne sono anch’esse, a modo loro, delle testimonianze; ci spingono intanto a verificare i dati, ad approfondire la ricerca, ad esplorare più da vicino certi aspetti della Resistenza, trattati finora piuttosto sommariamente.

Recenti studi hanno affrontato il problema dell’amministrazione tedesca in Italia e dei suoi rapporti con le organizzazioni economiche e industriali; ma nessuno di noi ha mai ignorato che legami finanziari e quindi politici i grandi capitalisti li hanno avuti anche  con gli Alleati, con il CLN, con certi uomini dell’antifascismo e della Resistenza. Abbiamo sempre riconosciuto che, dopo il 25 luglio e specialmente dopo l’8 settembre, i grandi industriali andarono mutando il loro atteggiamento, non tanto perché toccati dalla grazia divina e convertiti improvvisamente agli ideali dell’antifascismo e della Resistenza, ma poiché era ormai evidente la sconfitta del nazismo. Da qui la loro cauta fronda nei confronti dei tedeschi, della Repubblica di Salò, il loro doppiogiochismo. abbiamo mai taciuto delle influenze che essi riuscirono ad esercitare nella situazione (l’attesismo) ed all’interno stesso dei CLN. Non so però se le abbiamo tutte soppesate ed adeguatamente valutate anche in rapporto al modo come andarono a finire le cose. Problemi tutti sui quali ancora molto dovremo scavare e che ci potranno servire a meglio comprendere anche il presente.

Ma in questo momento siamo in altre faccende affaccendati. Le celebrazioni del ventennale della Resistenza si susseguono a ritmo serrato: è tutta una processione di discorsi, di inaugurazioni di lapidi, monumenti, tra preci, fiori, musiche, fanfare e l’elevarsi al vento di inni di gaudio.

Su questo ventennale della Resistenza, ha osservato Alessandro Galante Garrone, sembra spirare uno zefiro soave; sembra “un’aura dolce, senza turbamento, avere in sé” , come diceva il padre Dante, all’insegna del volemose bene.


Tutti oggi celebrano la Resistenza, non manca proprio nessuno. L’Italia ufficiale e popolare, laica e cattolica. persino i gesuiti di Civiltà Cattolica hanno sentito il bisogno di essere presenti. Naturalmente la celebrano a modo loro, aprendo un editoriale con le autorevoli parole pronunciate da Paolo VI per dichiarare che la ricorrenza è per l’Italia piena di memorie tragiche e grandi”. La celebrano come “ una lotta fratricida che ha lasciato degli strascichi dolorosi nell’animo degli italiani, una ferita non ancora rimarginata; una guerra civile combattuta con spaventosa violenza che ha portato le tre parti in lotta (partigiani, tedeschi e fascisti) ad efferatezze, ad eccidi, a rappresaglie e vendette terribili “

Il bene ed il male, il torto e la ragione, l’umanità e la barbarie stavano naturalmente, secondo i reverendi padri, dalle due parti. Vittime e carnefici, oppressi ed oppressori sono messi in fascio e accumunati in un solo destino.

Al coro s’é unito persino Indro Montanelli, che tutto giulivo va cantando a distesa che bellissima cosa rievocare la Resistenza”.

Non mancano, è vero, alcuni brontoloni, ai quali l’amico Parri paternamente ricorda che “ l’ufficialità, spesso refrigerante, l’abbiamo voluta noi, perché in questo paese dalla memoria così breve, una prima garanzia contro i dietrofront la dà, e questo passaporto occorre per arrivare alla scuola. Io mi sono sinceramente rallegrato”, continua Maurizio, “ quando ho sentito uomini di governo, lontani spesso dalle nostre esperienze, onorare i fatti della Liberazione con lo stesso accento di chi ha combattuto per essa. Ed hanno torto i compagni brontoloni, desiderosi ed insieme diffidenti di quanto sa di ufficiale”.

Appartengo anch’io, modestamente, alla schiera dei celebratori ed al tempo stesso dei brontoloni. Non c’é domenica e spesso anche sabato che non mi ritrovi in qualche piazza o teatro a commemorare la Resistenza assieme a uomini che hanno combattuto per essa, o ad altri che, per usare il diplomatico eufemismo suggerito da Parri, furono   in quegli anni “lontani dalle nostre esperienze” di ciò non posso anch’io che essere lieto.

Altro è il motivo del brontolio. In troppe manifestazioni ufficiali la Resistenza è celebrata soltanto da uomini che furono lontani dalle nostre, ed assai vicini, ad altre esperienze, per cui ne viene fuori la celebrazione di una Resistenza che non fu certo la nostra né quella di Maurizio.

Non è l’ufficialità, non sono i nuovi cantori della Resistenza a dare fastidio. Che siano uomini di governo ed alte autorità dello Stato a celebrarla può essere elemento positivo e contribuire a farla penetrare negli studi, nelle scuole e nelle aule magne. Purché celebrino la Resistenza quale essa fu, con i suoi ideali ed il suo programma e non una sorta di mito o di divinità fatta ad immagine e somiglianza dell’odierno governo        di  centro-sinistra più che non a quello che stava alla testa della Liberazione nazionale: il CLN.

E’ vero che oggi sta sugli altari la teoria del minor male, del “meglio accontentarci di poco”, “da cosa nasce cosa”, “meglio l’uovo oggi che la gallina domani”. E sia purché, come diceva Antonio Gramsci, non si tratti di un uovo di pidocchio.

Ciò di cui non pochi brontolano, e con ragione, non sono tanto gli amen che spesso chiudono, quasi a dare loro sepoltura, le manifestazioni celebrative, quanto il tentativo aperto e sfacciato da parte dei nuovi arrivati di deformare, rovesciare la Resistenza, presentarla con un volto ministeriale, dall’aspetto piuttosto “sinistro”, funereo.

I circoli dirigenti di governo monopolizzando, o quasi, manifestazioni, quanto meno le più ufficiali, sia sulle piazze che nei teatri e alla televisione, cercano di presentare una Resistenza evirata, senza principi, senza obiettivi, senza programmi sociali, come un grande movimento a cui tutti hanno partecipato, da Pio XII a Vittorio Valletta, e nel quale, come ha scritto il generale Cadorna, “la grande maggioranza dei caduti diede la vita  non per creare in Italia un nuovo regime di libertà, ma in nome degli ideali tradizionali: Dio, patria, famiglia”.

Di fronte a tali ed altre simili falsificazioni, come ritenerci soddisfatti, come non brontolare?

La televisione brilla nella sua opera di discriminazione e di deformazione. Certo, le trasmissioni dedicate alla Resistenza costituiscono qualcosa di nuovo, un passo avanti rispetto all’aperta denigrazione degli anni della guerra fredda, al punto che la stampa fascista s’é scagliata contro l’andata in onda dei documentari delle atrocità compiute     dai  tedeschi e dai fascisti e del martirio dei patrioti.

Ma la lettura dei brani, la scelta delle lettere, delle ultime parole dei condannati a morte è sempre fatta con sottile discriminazione (i comunisti non vi figurano mai né come idee né come persone) nell’intento evidente di mettere in luce l’eroismo, il sacrificio, le sofferenze, il pensiero rivolto a Dio. Mai si illuminano e si precisano gli ideali per      cui i caduti lottarono.

Molti dei discorsi celebrativi e delle trasmissioni televisive abbondano di questa retorica del sacrificio, dell’eroe senza volto tanto lontano e diverso dai vivi, appunto perché morto. Nell’esaltazione astratta della forza d’animo e della nobiltà dei caduti appare chiara la volontà di svuotare la Resistenza della sua realtà ignorandone gli ideali e il programma.

Non possiamo certo dichiararci soddisfatti, né tantomeno prestarci a simili deformazioni della verità e della storia. I giovani vogliono sapere, ma non vogliono essere ingannati. Per di più stiamo osservando come coloro che contribuiscono a trasformare la    Resistenza in una sorta di mito,  di fenomeno religioso, già cominciano a credere alla leggenda che essi stessi mettono in circolazione.

No, la Resistenza non fu un fenomeno religioso, Né semplicemente la manifestazione del sublime sacrificio di un popolo e neppure soltanto un grande movimento di lotta contro lo straniero, o la rivolta dell’uomo per la salvezza dell’onore e della dignità umana. Non è lecito ignorare gli ideali, le classi, le forze sociali che furono il nerbo, le forze       motrici della Resistenza. E’ giusto cogliere l’elemento unitario che mosse gli antifascisti, i patrioti, i combattenti della libertà, ma si deforma, si nega la Resistenza quando si tace del suo programma che venne poi riassunto e tradotto in formule giuridiche nella Costituzione, rimasta ancora oggi, nelle sue parti fondamentali, inattuata.

Nessuno pretende che gli uomini di governo e le alte autorità dello Stato celebrando la Resistenza ci parlino delle aspirazioni, delle esigenze che mossero le correnti più avanzate (le quali furono anche le più numerose, le più combattive, quelle che diedero  il  maggior contributo di idee, di sacrificio, di forza operante e dirigente), ma è giusto chiedere che almeno ci parlino degli obiettivi comuni, di quel programma di rinnovamento democratico che attende ancora di essere realizzato: la Costituzione.

Gli uomini della Resistenza non hanno lottato soltanto per cacciare i tedeschi, per battere i fascisti e lasciare poi le cose come prima; essi hanno lottato per dare all’Italia un altro ordinamento, un regime fondato sulla libertà e sulla giustizia, si sono battuti per un rinnovamento totale della nostra vita nazionale, per ricostruire dalle fondamenta il nostro paese.

Celebrare il ventennale della Resistenza significa riconoscere che, in questi vent’anni trascorsi, dei passi in avanti sono stati compiuti, che quella lotta non fu combattuta invano; ma significa altresì sottolineare che molta strada rimane da percorrere per rinnovare l’Italia, per fare un paese - come pensavano i resistenti e come fu scritto nella Costituzione - dove il popolo fosse veramente sovrano ed il benessere la condizione di vita di tutti gli italiani e non il privilegio di pochi.

Nel gennaio 1951 Pietro Nenni, ora vicepresidente del Consiglio, scriveva: “La Costituzione è ridotta ad un pezzo di carta che annuncia diritti quotidianamente violati dal potere esecutivo, la democrazia è ridotta a delega di potere, il Parlamento è diventato un organismo decorativo dominato da oligarchie d’interessi, l’autonomia promessa ai comuni è imbrigliata dall’arbitrio dei prefetti, l’ordinamento regionale è tuttora da attuare, i regolamenti di polizia ed i codici sono ancora quelli fascisti, l’amministrazione statale è anchilosata e risponde a criteri accentratori divenuti incompatibili con la vita moderna, l’esercito e le forze armate tendono a ricostituirsi come una casta, la polizia è il braccio secolare del partito al potere”.

C’é forse uno solo di questi aspetti così diligentemente elencati tredici anni or sono dall’attuale vicepresidente del Consiglio, che sia venuto meno? Sussistono tutti e ad essi si potrebbero aggiungere gli scandali che si susseguono a ritmo serrato, la corruzione che dilaga, il sottogoverno elevato a regime. Eppure sono passati tredici anni di discorsi, di parole, di promesse non mantenute, di inadempienze, e tutto è rimasto come prima, in questo campo beninteso, perché non siamo così ciechi da non vedere che per altri aspetti alcune cose sono andate avanti, sono mutate, per merito soprattutto delle lotte delle masse lavoratrici.

Alcuni si chiedono se oggi possiamo ancora riallacciarci alla Resistenza oppure se dobbiamo constatare che in questi anni è avvenuta una frattura così profonda che la continuità è ormai perduta. Ritengo che la Resistenza come fatto politico e culturale, malgrado le fratture, non soltanto è presente e valida ancora, ma vuole altresì essere studiata perché lo stesso presente con i vuoti, le contraddizioni ed i problemi che esso pone, può essere compreso soltanto se volgiamo lo sguardo al passato. Dobbiamo ricercarci ancora lo spirito, i valori ed anche i limiti, che forse oggi ci appaiono più chiari. Le celebrazioni dovrebbero servire, più di quanto non stia avvenendo, ad approfondire, allargare, dare nuovo slancio agli studi e alle interpretazioni della Resistenza, che sembra invece che debbano lasciare il posto soltanto alla retorica ed ai discorsi di circostanza. Ciò è soprattutto necessario nel momento in cui alle deformazioni storiche          si accompagna la pressione revisionista a cedere, a non essere più noi stessi, ad adattarci al conformismo dilagante.

Noi siamo, beninteso, per le manifestazioni unitarie purché da esse non siano escluse, messe in un angolino, quasi in castigo, le forze effettive della Resistenza. Siamo per le manifestazioni unitarie, anzi siamo noi dirigenti della lotta di Liberazione che le vogliamo effettivamente unitarie, senza discriminazioni, tese a fare comprendere che cosa è stata, che cosa voleva e vuole la Resistenza, quale fu il suo programma e che cosa deve essere ancora fatto affinché sia realizzato.

Qualcuno disse un tempo: “Parigi val bene una messa”, ma se ci si offre una messa  in  cambio delle riforme di struttura, allora diciamo: NO.

Degnamente si celebra il ventennale della Resistenza se le forze democratiche assumono l’impegno unitario di operare perché la Costituzione sia finalmente attuata nella sua pienezza oggi e non nel duemila (sic), perché le riforme di struttura siano attuate  oggi e non tra un secolo. Se invece le celebrazioni devono risolversi semplicemente in tanti discorsi retorici      e rievocativi, seguiti da cortei e banchetti, il pericolo, dallo stesso amico Parri denunciato, che passata la festa e spenti i lumi tutto finisca con l’ultima     eco delle  prediche e la Resistenza sia fregata un’altra volta”, esiste realmente.

Questo pericolo è già in atto nel tentativo di giubilare la Resistenza beatificandola. E’ contro questo pericolo che dobbiamo batterci e non soltanto brontolare, rifiutandoci      di aiutare il centro-sinistra a coprire una politica sostanzialmente conservatrice (blocco dei salari e della scala mobile, alti profitti ai padroni, offensiva contro l’unità e l’autonomia dei sindacati, applicazione della linea Carli) sotto il manto e l’aureola della Resistenza.

Ci opponiamo a che i gruppi capitalisti, i cui giornali partecipano anch’essi alle celebrazioni del ventennale e che si gloriano essi stessi d’aver preso parte a quella grande lotta, tentino di portare avanti, all’ombra di una bandiera che a loro non appartiene, la politica di sfruttamento, di oppressione, di discriminazione che è la negazione della democrazia e della libertà.