Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

martedì 30 dicembre 2014

Un anno di lotte

Luciano Granieri



Diritto al lavoro, allo studio, ai beni comuni e all’acqua, alla salute, sono elementi fondamentali per il pieno sviluppo della dignità umana. La loro negazione pone ostacoli al raggiungimento della dignità medesima e ciò è contrario al dettato costituzionale. Nella nostra Provincia questi diritti, o sono negati, o vengono elargiti  come regalia, in cambio di qualche contropartita elettorale. 

E’ evidente come le amministrazioni e le istituzioni non siano in grado di rimuovere gli ostacoli posti sulla strada dello sviluppo della dignità umana, anzi sono i primi a porre impacci. Infatti le molteplici storie di lavoro negato nel nostro territorio vedono come principali protagonisti sindaci, amministratori di Provincia e di Regione . Così come i sindaci sono responsabili della tresca ordita da Acea ai danni degli utenti del servizio idrico. 

Allo stesso modo la Regione, attraverso la sua esattrice di salute Isabella Mastrobuono, sta sottraendo pezzi di sanità pubblica alla cittadinanza  per svenderla alle grandi lobby private, è il caso dei laboratori d’analisi. Un’operazione che, dopo le misere vicende di Mafia-Capitale , chissà perché, ha subito un notevole rallentamento. A distruggere la scuola pubblica ci sta pensando direttamente lo Stato centrale. 

Dunque a  rimuovere gli ostacoli sul percorso dello sviluppo della dignità umana devono pensarci i cittadini. Ciò è quanto accaduto anche a Frosinone nel 2014. Una Paese dalla cittadinanza dormiente, ma che ha visto degli scatti di dignità da parte di una piccola parte di popolazione, soprattutto in relazione al piano di devastazione della sanità provinciale. 

Questa piccola parte di popolazione si è messa a fare politica, quella vera, fra la gente, quella che una volta facevano i partiti di massa oggi ridotti a comitati di affari costantemente  in combutta con potentati finanziari sempre più voraci.  E la gente, anche se molto lentamente  e a fatica, comincia a prendere coscienza, a capire che il lavoro, l’accesso all’acqua, la salute, l’istruzione non è un privilegio , ma  un diritto sancito per natura e per legge. Nel 2014 l’attività in piazza è stata minima. Speriamo che nel 2015 possano moltiplicarsi gli sforzi sulla strada della rivendicazione di una vita dignitosa per tutti. Ed è per questo che auguro ad ogni lettore un proficuo nuovo anno  di lotta.

Multiservizi ancora una proroga alle coop

Comitato di lotta Frosinone

Mille promesse, mille proroghe, mille poltrone, mille volti dell’amministrazione. I lavoratori sono solo a 269 giorni di presidio. E’ ancora troppo presto...

Un fine d’anno poco felice accompagnerà i lavoratori della Frosinone Multiservizi accampati per il 269° giorno sotto il municipio in attesa della definizione tecnica per la costituzione della newco.
L’amministrazione comunale di Frosinone preferisce allungare il brodo dei servizi alle coop per altri quattro mesi utilizzando proprio la newco per giustificarne le proroghe!

Nonostante fosse stato firmato l’impegno politico e i lavoratori attendessero una veloce azione, l’Amministrazione invece posticipa, forse, a maggio le operazioni. I lavoratori, che pure avevano salutato positivamente l’accordo, non avevano certo deciso ancora di smantellare il presidio, ben conoscendo Millevolti. Non è nuova l’Amministrazione a queste trovate, che tradiscono sempre gli impegni presi pubblicamente.

Si ricorda l’esternalizzazione dei servizi con il mancato passaggio dei lavoratori, sostituiti impropriamente con altri; il tentativo di convincere il comune di Alatri sulla necessità della società pubblica, mentre facevano il bando per le coop; il mancato rispetto degli accordi presi con la prefettura; il calcolato ignorare l’intervento della regione Lazio; l’affidamento definitivo a Solco dei servizi dopo che la Commissioneconsiliare aveva optato per la gestione pubblica. Tanti sono stati i momenti di repentino voltafaccia finalizzati evidentemente alle “mille proroghe”.

Vuole, dunque, essere questo il carattere distintivo di questa amministrazione: il disprezzo e il ripudio dell’intervento pubblico, del confronto democratico, del governo per gli interessi della cittadinanza. Si distinguerà come quella che avrà prosciugato i risparmi dei cittadini con prelievi forzosi di tasse al massimo, che verranno spesi, questi ed altri, per la costruzione di un nuovo inutile stadio; per aver scelto l’inerzia nei confronti di Acea e della deriva della sanità. Si distinguerà per aver sdoganato la morale e l’etica di personaggi come Ciavardini, accolto come un animatore sportivo ed umano dimenticando le pesantissime e reiterate condanne…

Eppure le bruciature a partite dalla vicenda Sangalli e delle altre miserrime vicende legate alle segreterie politiche, avrebbero dovuto segnare campanelli d’allarme per ripensare questa politica. Invece si prosegue sulla sicura strada del governo dei mille appalti, delle mille proroghe, delle mille poltrone, dove una parte “in tragedia” la svolgono decine di yesman, senza pensare, senza considerare, senza amore per la propria gente.

Anche l’inchiesta “Mafia-capitale” avrebbe dovuto suggerire di utilizzare con molta attenzione l’istituto della proroga, degli affidamenti, dell’utilizzo delle cooperative sociali, impigliate in molti filoni d’inchiesta, ma che sul territorio sono state accolte con il tappeto rosso.
A Frosinone, ma non nei bar, nei piani alti della politica, si discute di pallone e di posti al sole, improvvisamente e genialmente aumentati anche senza le necessarie poltrone!

Rimane la tenda, oggetto invisibile, necessariamente invisibile in questa tela. Eppure essa è vissuta dopo quasi 9 mesi sempre più come testimonianza di giustizia sociale, di legalità, di riappropriazione di diritti calpestati. Questo è il messaggio che il 31 dicembre i lavoratori e le lavoratrici lanciano alla città….

lunedì 29 dicembre 2014

L’Unione Europea calpesta le conquiste democratiche e sociali

Eric Toussaint

Il fallimento dei governi europei, DELLACommissione Europea e della BCE è evidente nel realizzare ciò che si suppone vogliano OTTENERE: ridurre la disoccupazione, rilanciare l’attività economica, risanare dalle fondamenta le banche, stimolare e aumentare il credito ai privati e alle PMI, e anche aumentare l’investimento e ridurre il debito pubblico. Su tutti questi PUNTI, la politica europea è un fiasco clamoroso. Ma in realtà sono questi gli obiettivi che i dirigenti europei vogliono raggiungere?
I media mainstream affrontano regolarmente una serie di questioni come: una possibile esplosione della zona euro; il fallimento delle politiche di austerità in materia di ripresa economica; le tensioni tra Berlino, Parigi o Roma, tra Londra e i membri della zona euro; le contraddizioni in seno al Consiglio della BCE; le enormi difficoltà per arrivare ad un accordo sul bilancio della UE; i dissidi di certi governi europei con ilFMI a proposito della quantificazione dell’austerità. Anche se queste tensioni sono del tutto reali, non ci devono occultare la cosa essenziale.
I dirigenti europei dei Paesi più forti e i padroni delle grandi imprese si rallegrano che ci sia una zona economica, commerciale e politica comune, dove le transnazionali europee e le economie del Centro della zona euro ottengono profitti dalla debacle della Periferia, per rafforzare la redditività delle loro imprese e guadagnare competitività rispetto ai loro concorrenti statunitensi e cinesi. Il loro obiettivo, nello stato ATTUALE della crisi, non è quello di rilanciare l’economia e ridurre le asimmetrie tra le economie forti e quelle deboli all’interno della UE.
Inoltre i dirigenti europei ritengono che la debacle del Sud europeo sarà un’opportunità per privatizzazioni generalizzate di imprese e beni pubblici a prezzi da SALDO. E li aiutano l’intervento della Troika e la complicità attiva dei governi della Periferia. Le classi dominanti dei Paesi periferici sono favorevoli a queste politiche, dato che contano di ricevere una parte di una torta che da tempo desiderano. Le privatizzazioni di Grecia e Portogallo prefigurano quello che arriverà a Spagna e Italia, dove i beni pubblici che si potrebbero acquisire sono molto più importanti, considerate le DIMENSIONIdi queste due economie. I dirigenti delle economie europee più forti progettano anche di mettere in atto una nuova ondata di importanti privatizzazioni nei loro stessi Paesi.
Non si cerca neppure di dissimulare la stretta RELAZIONE tra i governanti e il grande capitale. Alla testa di diversi governi, collocati in posti ministeriali importanti e alla presidenza della BCE, si trovano uomini direttamente usciti dasl mondo dell’alta finanza, |1| a cominciare dalla banca d’affari Goldman Sachs. |2| Alcuni politici di primo piano sono ricompensati con un posto in una grande banca o un’altra grande impresa una volta compiuti i loro favori alle grandi corporazioni. |3| Non è cosa nuova, ma è più evidente e comune rispetto agli ultimi 50 anni. Si può parlare di veri vasi comunicanti e molto trasparenti.
Ritenere che la politica dei dirigenti europei sia un fallimento perché la crescita economica non è tornata significa sbagliare notevolmente il criterio di analisi. Gli obiettivi perseguiti dalla direzione della BCE, dalla Commissione Europea, dai governi delle economie più forti della UE, dalle direzioni delle banche e delle altre grandi imprese private non sono né il rapido ritorno alla crescita, né la riduzione delle asimmetrie all’interno della zona euro e della UE al fine di farne un insieme più coerente nel quale possa TORNARE la prosperità.
E soprattutto non bisogna dimenticare una questione fondamentale: la capacità dei governanti, che si sono messi docilmente al servizio degli interessi delle grandi imprese private, per gestire una situazione di crisi, anche di caos, e agire nella direzione RICHIESTA da queste grandi imprese. La crisi permette di passare all’attacco con il pretesto di applicare un trattamento shock giustificato dall’ampiezza dei problemi.
I diritti economici, sociali e culturali sono continuamente messi in discussione fin dalle loro fondamenta, senza dimenticare l’offensiva contro i diritti civili e politici come il diritto effettivo all’elezione dei parlamentari. In verità, il Parlamento Europeo non esercita realmente il potere legislativo, i parlamenti nazionali dei Paesi sottomessi alla Troika vedono come questa gli detta le sue leggi, e gli altri Parlamenti hanno la loro sovranità e il loro potere fortemente limitati dai diversi trattati europei, adottati senza nessuna CONSULTAZIONE democratica, come il TSCG (Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governabilità) che fissa requisiti di bilancio inaccettabili.
Anche altri diritti vengono scherniti: l’esercizio reale del suffragio universale diretto, il diritto di respingere i trattati, il diritto di modificare la costituzione mediante un processo democratico costituente, il diritto di protestare e di organizzarsi perché queste proteste diano dei RISULTATI. La UE e i suoi Paesi membri fomentano una deriva autoritaria con il ritorno dell’esercizio diretto del potere da parte dei rappresentanti di un’oligarchia economica.
Per avanzare nella maggior offensiva portata avanti dopo la seconda guerra mondiale su scala europea contro i diritti economici e sociali della maggioranza della popolazione, i governi e il padronato utilizzano armi diverse: il debito pubblico, la disoccupazione, l’aumento dell’età pensionabile, l’esclusione dal diritto di ricevere un sussidio delle moltissime persone senza impiego, il congelamento o la diminuzione dei salari e dei diversi aiuti sociali, la riduzione dei posti di lavoro sia nelle imprese private che nel settore pubblico, la RICERCA dell’equilibrio di bilancio come pretesto per i severi tagli nei servizi pubblici, la ricerca del miglioramento della competitività degli Stati membri della UE, tra loro e rispetto ai loro concorrenti commerciali di altri continenti.
Per il Capitale, la questione è aumentare ancor di più la precarizzazione dei lavoratori, ridurre radicalmente la loro capacità di mobilitazione e di resistenza, diminuire i salari e le diverse prestazioni sociali e allo stesso tempo mantenere le enormi disparità tra i lavoratori all’interno dell’UE, con l’obiettivo di aumentare la concorrenza tra loro e affondarli nella trappola del debito.
In primo luogo ci sono le disparità tra i salariati di uno stesso Paese: tra donne e uomini, tra fissi e temporanei, tra lavoratori part time e lavoratori a tempo pieno, tra le vecchie generazioni che beneficiano di un sistema di pensionamento basato sulla solidarietà e le NUOVE generazioni alle quali si impone un sistema sempre più individualista e aleatorio. Senza contare i «clandestini», supersfruttati e che non godono di nessun diritto sociale legato al lavoro. Per iniziativa del padronato e con l’appoggio dei governi che si succedono (e in questo, i partiti socialisti europei hanno svolto un ruolo attivo), queste disparità sono cresciute nel CORSO degli ultimi 20 anni. Per esempio, in Germania 7 milioni e mezzo di lavoratori devono accontentarsi di un salario mensile di 400 euro, quando il salario minimo normale supera nettamente i 1.500 euro. |4|
In secondo luogo a queste differenze si aggiungono le disparità tra i lavoratori dei Paesi del Centro e quelli dei Paesi della Periferia nel seno della UE, che sono complementari a quelle che si approfondiscono nell’ambito delle frontiere nazionali. I salari dei lavoratori del gruppo dei Paesi più forti (Germania, Francia, Paesi Bassi, Finlandia, Svezia, Austria, Danimarca) sono il doppio o il triplo dei salari dei quelli di Grecia, Portogallo o Slovenia. Il salario minimo legale della Bulgaria (156 euro lordi mensili nel 2013) è da 8 a 9 volte inferiore a quello di Paesi come Francia, Belgio o Paesi Bassi. |5|
Nell’America del Sud, anche se le differenze sono grandi tra le economie più forti (Brasile, Argentina, Venezuela) e le più deboli (Paraguay, Bolivia, Ecuador...), la differenza nel salario minimo legale è dell’ordine di 1 a 4, pertanto una disparità nettamente minore che nel seno dell’Unione Europea. Questo MOSTRA fino a che punto è forte la concorrenza tra i lavoratori d’Europa. Le grandi imprese dei Paesi europei più forti sul piano economico beneficiano profondamente delle disparità salariali nel seno dell’UE.
Le autorità europee rafforzano anche la politica da fortezza assediata sminuendo il DIRITTO dei cittadini e cittadine non europei/e all’accesso al loro territorio. Inoltre, perfezionano la loro politica criminale alle frontiere d’Europa che provoca la morte di migliaia di persone che cercano di trovare una vita migliore nell’Unione Europea. Anche il diritto di asilo è calpestato.
Quello che vediamo, dietro la cortina di fumo dei discorsi ufficiali, è una logica terribile, ingiusta e mortifera che è in atto. È il momento di portarla alla luce per poterla affrontare meglio e riuscire a sconfiggerla.
Note:
|1| Un esempio: Emmanuel Macron, designato ministro dell’Economia e dell’Industria dal presidente francrsr François Hollande a fine agosto del 2014, che proviene dalla banca Rotschild, si veda:http://es.wikipedia.org/wiki/Emmanu...
|2| Éric Toussaint,«Bancocracia: de la república de Venecia a Mario Draghi y Goldman Sachs» pubblicato il 6 novembre 2013, http://wwwcadtm.or/Bancocracia-de-l...
|3| Éric Toussaint, «DSK, Blair, Geithner, Rubin: de la politique à la finance», pubblicato il 9 dicembre 2014, http://cadtm.org/DSK-Balir-Geithner...
|4| Il salario minimo stabilito recentemente in Germania sarà effettivo a PARTIRE dal 2017, ma avrà numerose eccezioni e non beneficerà di una rivalutazione regolare e automatica;
|5| Si veda http://epp.eurostat.ec.europa.eu/st... con i DATI fino al 2013. Si veda anchehttp://www.inegalites.fr/spip.php?a... dove ci sono dati che sfortunatamente si fermano al 2011.
Éric Toussaintmaître de conférence all’Università di Liegi, portavoce del CADTM INTERNAZIONALE e membro del Consiglio scientifico di ATTAC Francia, è autore di Bancocracia, Icaria Editorial, Barcellona, 2014, Proceso de un hombre ejemplarEDIZIONE digitale (2013), disponibile in pdf, si veda www.cadtm.org/Proceso-a-un-h...Una mirada al retrovisor. El neoliberalismo desde sus orígenes hasta la actualidad, Icaria Editorial, Barcellona, 2010.

Addio a Buddy De Franco il Charlie Parker del clarinetto.

Luciano Granieri


Negli anni ‘40 Il Be Bop era il nuovo stile nero, manifesto  di  riappropiazione della creatività afroamericana annacquata dalle orchestre commerciali  bianche della swing era. Il Be bop, rifuggendo, anzi distruggendo le mielosità e  gli ammiccamenti danzanti delle orchestre da ballo, proponeva una musica frenetica, dai fraseggi complessi e veloci, rimetteva al centro dell’esecuzione l’improvvisazione. Alle sonorità swing  brillanti ed eleganti del clarinetto di Goodman e di Artie Shaw si sostituivano le  furiose scorribande Bop del sax alto  di Charlie Parker e della tromba di Dizzy Gillespie. "Swing, deriva commerciale bianca della musica jazz, il cui strumento principe era il clarinetto, e Be Bop come riscossa creativa nera dove a dettare legge era il sassofono"? E’ una conclusione appropriata, ma non esatta. La musica jazz infatti certezze non ne fornisce, mai.  E’ una forma musicale nata e cresciuta sulla contaminazione, dal  combinarsi di sensibilità culturali e musicali  sempre nuove e diverse. Non c’è dunque da stupirsi se nell’era del Be Bop, dei solisti neri, quattro musicisti bianchi si imponessero all’attenzione del panorama jazzistico dell’epoca ,guarda caso,  suonando quel clarinetto, strumento principe della swing che nel Be Bop era stato posto in secondo piano. Quattro musicisti di origini italiane: John La Porta, Jimmy Giuffre, Antonio Sciacca, meglio conosciuto col nome di  Tony Scott, e Buddy De Franco. In particolare vogliamo ricordare Buddy De Franco, scomparso la vigilia di natale all’età di 91 anni in Florida. Buddy era  considerato il Charlie Parker del clarinetto. Forse l’unico che dal punto di vista tecnico sia riuscito a superare Benny Goodman. La sua capacità improvvisativa e creativa lo pone a tutti gli effetti fra i musicisti Bop più importanti, anche se il suo fraseggio vitale, incisivo e cristallino spesso veniva considerato “freddo” dagli appassionati. Non a caso De Franco fu  anche  uno dei protagonisti della crescita  del Cool jazz una stile più compassato e ricercato diffusosi negli anni ’50. Il clarinettista, nato nel New Jersey e cresciuto a Philadelphia, è stato a lungo attore principale  in  molti scenari jazzistici,  dall’epopea dello swing a fianco di Gene Krupa,  e nel settetto di Count Basie  al Be Bop, al Cool fino alla presenza negli Art Blakey Jazz Messenger,  esponenti dell’evoluzione Hard Bop. Con la morte di De Franco il jazz perde uno dei più longevi e creativi musicisti  della sua storia.



domenica 28 dicembre 2014

L'ORRORE ISRAELIANO NEL VILLAGGIO PALESTINESE DI AZZOUN

 Samantha Comizzoli


Il villaggio di Azzoun si trova sulla STRADA prima di arrivare a Qalquilja ed è “controllato” da due torrette israeliane e due cancelli custoditi dai soldati. Chi segue i miei REPORT ha già sentito parlare di Azzoun: è il villaggio di Younes (al quale i soldati hanno sparato alla schiena ed ora è paralizzato) e di Waleed, un bambino di 14 anni torturato e rapito dai soldati israeliani.
Ebbene, qualche giorno fa i vostri media italiani ne hanno parlato per un'aggressione che sarebbe avvenuta ad un'auto di coloni, il lancio di una molotov che ha provocato l'incendio dell'auto e il ferimento del guidatore e di suo figlio di 11 anni.

Ora vi racconto i fatti dal principio su questa vicenda. Il giorno 26 dicembre (il giorno prima dell'incendio dell'auto) fra Azzoun e il villaggio di Jaiuss, i soldati nazisti israeliani hanno installato un altro cancello d'ingresso controllato da loro. In pratica hanno chiuso il villaggio di Azzoun, poiché quella era l'ultima strada libera.
Il giorno 27 dicembre verso le ore 16,00 sulla strada PRINCIPALE (teatro dell'incidente) c'è stato un dispiegamento di soldati e jeeps e hanno creato diversi checkpoint volanti. Gli abitanti del villaggio di Azzoun si sono allarmati perchè hanno capito che stava per accadere qualcosa. Ovviamente in una circostanza del genere NESSUNO camminava vicino a quella strada, e men che meno per tirare una molotov. Dure ore dopo (verso le 18,00) c'è l'incendio dell'auto del colono che verrà trasmesso ai media per il lancio di una molotov.
La notte del 27 dicembre, a seguito della famigerata molotov, i soldati nazisti israeliani fanno irruzione nel villaggio di Azzoun e chiudono tutti e tre gli ingressi. Nessuno può entrare né uscire.

Entrano nella case con violenza, facendo saltare le porte e distruggono gli arredamenti. Rapiscono 15 persone, fra i QUALI dei bambini. ( Ashraf Ahmed Radwan, Amir Jawdat, Radwan, Gattaca shabita 16 anni, Walid Musa Abu Libdeh 14 anni, mghaoih Abdul Latif Rizwan 19 anni, Murat Hawk 20 anni, sweidan Rizwan Malik Al 20 anni, ALA Samir Salim, 22 anni, ikrima Mohamed dahbour 22 anni, Yusuf Zennaro Swedan 16 anni, Fahmi Nael 17 anni, Mohamed Ali 20 anni, Emad Mohamed Alami 30 anni.)

E' giovedì notte, seguono il venerdì e il sabato che sono giorni di festa e pertanto di “non lavoro” e pertanto di tutti questi rapiti non si hanno ATTUALMENTEnotizie.
Oggi è il 28 dicembre e i soldati israeliani sono tornati nel villaggio di Azzoun e hanno rapito altre due persone.
Il villaggio di Azzoun è teatro di molti rapimenti di bambini da parte di israele. Nel guinness dei primati c'è Gerusalemme, ma Azzoun la segue. Dovete anche sapere che il villaggio è nel mezzo di una volontà di ampliamento dell'insediamento illegale israeliano e confina con il nucleo di abitazioni palestinesi di Ismal Tabib. Tabib non è un campo profughi e non è nemmeno un villaggio pertanto nessuno se ne occupa perchè non figura in nessuna categoria. Questo piccolo nucleo di persone deve vedersela con israele che vuole cancellarli per costruire un ….......... parco giochi per bambini israeliani.
Ora, nessuno di noi era su quella strada per poter dire che la molotov non è stata tirata, ma pur volendo tenere in considerazione che abbiano tirato una molotov, scusate, ma questi palestinesi con tutti questi bambini rapiti, picchiati e torturati e con tutto il quadro che vi ho descritto...scusate, ma questi palestinesi come cazzo si devono difendere?
Nel villaggio di Azzoun ho raccolto un'importante testimonianza: un bambino che è stato picchiato e rapito da israele e detenuto per 16 mesi. Aveva 13 anni quando l'hanno rapito, ora ne ha 15. I suoi famigliari mi hanno raccontato che gli hanno anche spento le sigarette sulle labbra, i soldati. Lui a me non l'ha raccontato e non perchè c'era la telecamera, ma perchè davanti ad una donna, bionda ed internazionale questo piccolo palestinese ci teneva alla sua dignità.
Mi ha però raccontato tutto il resto, ho mascherato il viso del bambino perchè non voglio che lo rapiscono di NUOVO. Guardate come hanno costruito fino all'impensabile la messa in scena per rapirlo. Vomitate pure per quello che hanno fatto a questo bambino, ma poi tornate a ragionare su tutta la vicenda di Azzoun e credo, capirete da voi la verità.

p.s.: i rapimenti e i raid nel villaggio sono in CORSO anche in questo mome




Wu Ming: i due marò, quello che i media (e i politici) italiani non vi hanno detto.

fonte: wumingfoundation.com


[Una delle più farsesche “narrazioni tossiche” degli ultimi tempi è senz’altro quella dei “due Marò” accusati di duplice omicidio in India. Fin dall’inizio della trista vicenda, le destre politiche e mediatiche di questo Paese si sono adoperate a seminare frottole e irrigare il campo con la solita miscela di vittimismo nazionale, provincialismo arrogante e luoghi comuni razzisti.
Il giornalista Matteo Miavaldi è uno dei pochissimi che nei mesi scorsi hanno fatto informazione vera sulla storiaccia. Miavaldi vive in Bengala ed è caporedattore per l’India del sito China Files, specializzato in notizie dal continente asiatico. A ben vedere, non ha fatto nulla di sovrumano: ha seguito gli sviluppi del caso leggendo in parallelo i resoconti giornalistici italiani e indiani, verificando e approfondendo ogni volta che notava forti discrepanze, cioè sempre. C’è da chiedersi perché quasi nessun altro l’abbia fatto: in fondo, con Internet, non c’è nemmeno bisogno di vivere in India!
Verso Natale, la narrazione tossica ha oltrepassato la soglia dello stomachevole, col presidente della repubblica intento a onorare due persone che comunque sono imputate di aver ammazzato due poveracci (vabbe’, di colore…), ma erano e sono celebrate come… eroi nazionali. “Eroi” per aver fatto cosa, esattamente?
Insomma, abbiamo chiesto a Miavaldi di scrivere per Giap una sintesi ragionata e aggiornata dei suoi interventi. L’articolo che segue – corredato da numerosi link che permettono di risalire alle fonti utilizzate – è il più completo scritto sinora sull’argomento.
Ricordiamo che in calce a ogni post di Giap ci sono due link molto utili: uno apre l’impaginazione ottimizzata per la stampa, l’altro converte il post in formato ePub. Buona lettura, su carta o su qualunque dispositivo.
N.B. Cercate di commentare senza fornire appigli per querele. Se dovete parlar male di un politico, un giornalista, un militare, un presidente di qualcosa, fatelo con intelligenza, grazie.
P.S. Grazie a Christian Raimo per la sporcatura romanaccia, cfr. didascalia su casa pau.]


di Matteo Miavaldi
Il 22 dicembre scorso Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due marò arrestati in Kerala quasi 11 mesi fa per l’omicidio di due pescatori indiani, erano in volo verso Ciampino grazie ad un permesso speciale accordato dalle autorità indiane. L’aereo non era ancora atterrato su suolo italiano che già i motori della propaganda sciovinista nostrana giravano a pieno regime, in fibrillazione per il ritorno a casa dei «nostri ragazzi”, promossi in meno di un anno al grado di eroi della patria.
La vicenda dell’Enrica Lexie, la petroliera italiana sulla quale i due militari del battaglione San Marco erano in servizio anti-pirateria, ha calcato insistentemente le pagine dei giornali italiani e occupato saltuariamente i telegiornali nazionali.
E a seguirla da qui, in un villaggio a tre ore da Calcutta, la narrazione dell’incidente diplomatico tra Italia e India iniziato a metà febbraio è stata – andiamo di eufemismi – parziale e unilaterale, piegata a una ricostruzione dei fatti distante non solo dalla realtà ma, a tratti, anche dalla verosimiglianza.

In un articolo pubblicato l’11 novembre scorso su China Files ho ricostruito il caso Enrica Lexie sfatando una serie di fandonie che una parte consistente dell’opinione pubblica italiana reputa verità assolute, prove della malafede indiana e tasselli del complotto indiano. Riprendo da lì il sunto dei fatti.
E’ il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati, un rischio concreto lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone.
Intorno alle 16:30 locali si verifica l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony ed uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio.
La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi.
La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’Esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane.
La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti.
Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari siano tenuti in custodia presso unaguesthouse della CISF (Central Industrial Security Force, il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici) invece che in un normale centro di detenzione.

Questi i fatti nudi e crudi. Da quel momento è partita una vergognosa campagna agiografica fascistoide, portata avanti in particolare da Il Giornale, quotidiano che, citando un’amica, «mi vergognerei di leggere anche se fossi di destra».
Che Il Giornale si sia lanciato in questa missione non stupisce, per almeno due motivi:

1) La fidelizzazione dei suoi (e)lettori passa obbligatoriamente per l’esaltazione acritica delle nostre – stavolta sì, nostre – forze armate, impegnate a «difendere la patria e rappresentare l’Italia nel mondo» anche quando, sotto contratto con armatori privati, prestano i loro servizi a difesa di interessi privati.
Anomalia, quest’ultima, per la quale dobbiamo ringraziare l’ex governo Berlusconi e in particolare l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che nell’agosto 2011 ha legalizzato la presenza di militari a difesa di imbarcazioni private. In teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, senonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano. Ma questa è – parzialmente – un’altra storia.


2) Il secondo motivo ha a che fare col governo Monti, per il quale il caso dei due marò ha rappresentato il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, escludendo la missione impossibile di cancellare il ricordo dell’abbronzatura di Obama, della culona inchiavabile, letto di Putin, della nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e tutto il resto del repertorio degli ultimi 20 anni.
Troppo presto per togliere l’appoggio a Monti per questioni interne, da marzo in poi Latorre e Girone sono stati l’occasione provvidenziale per attaccare l’esecutivo dei tecnici, mantenendo vivo il rapporto con un elettorato che tra poco sarà di nuovo chiamato alle urne. E’ il tritacarne elettorale preannunciato da Emanuele Giordana al quale i due marò, dopo la visita ufficiale al Quirinale del 22 dicembre, sono riusciti a sottrarsi chiudendosi letteralmente nelle loro case fino al 10 gennaio quando, secondo i patti, torneranno in Kerala in attesa del giudizio della Corte Suprema di Delhi.


Qualche esempio di strumentalizzazione?

Margherita Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre riesce finalmente a fare notizia offrendosi come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per Natale.
Ignazio La Russa, Pdl, il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due marò nelle liste del suo nuovo partito Fratelli d’Italia (sic!).
L’escamotage, che serve a blindare i due militari entro i confini italiani, è rimandato al mittente dagli stessi Latorre e Girone, irremovibili nel mantenere la parola data alle autorità indiane.

LA QUERELLE SULLA POSIZIONE DELLA NAVE E UNA CURIOSA “CONTROPERIZIA”
La prima tesi portata avanti maldestramente dalla diplomazia italiana, puntellata dagli organi d’informazione, sosteneva che l’Enrica Lexie si trovasse in acque internazionali e, di conseguenza, la giurisdizione dovesse essere italiana. Ma le cose pare siano andate diversamente.
Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate «rilevazioni satellitari”.
Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India.

Nonostante la confusione causata dal campanilismo della stampa indiana ed italiana, la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero ed è ufficialmente da considerare valida la perizia indiana.
La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio,citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria.
Secondo i dati recuperati dal GPS della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta«zona contigua».
Il diritto marittimo internazionale considera «zona contigua» il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione.

[ UPDATE 19 GENNAIO: il capoverso qui sopra è stato molto criticato, ma nella sostanza riassume la posizione dell’India sulla «zona contigua»,posizione ribadita ieri dalla Corte suprema di New Delhi: «The incident of firing from the Italian vessel on the Indian shipping vessel having occurred within the Contiguous Zone, the Union of India is entitled to prosecute the two Italian marines under the criminal justice system prevalent in the country.» Quest’aspetto verrà approfondito nel prossimo post di Miavaldi. Anche in quest’occasione, i media italiani hanno disinformato pesantemente, ripetendo a tamburo che secondo l’India l’incidente “non è avvenuto in acque territoriali”, senza però dire come proseguiva il discorso, e quindi cosa significhi. Secondo la Corte suprema l’incidente non è avvenuto nelle acque territoriali e perciònon è competenza dello stato del Kerala, ma è avvenuto nella “zona contigua”, sulla quale l’India –intesa come nazione tutta – rivendica la giurisdizione. Per questo il processo è stato spostato dal livello statale a quello federale. ]

A contrastare la versione ufficiale delle autorità indiane – che, ricordiamo, è stata accettata anche dai legali dei due marò e sarà la base sulla quale la Corte suprema indiana si pronuncerà – è apparsa in rete la riccacontroperizia dell’ingegner Luigi di Stefano, già perito di parte civile per l’incidente di Ustica.

Di Stefano presenta una serie di dati ed analisi tecniche a supporto dell’innocenza dei due marò. Chi scrive non è esperto di balistica né perito legale – non è il mio mestiere – e davanti alla mole di dati sciorinati da Di Stefano rimane abbastanza impassibile. Tuttavia, è importante precisare che Di Stefano basa gran parte della sua controperizia su una porzione minima dei dati, quelli cioè divulgati alla stampa a poche settimane dall’incidente. Dati che, sappiamo ora, sono stati totalmente sbugiardati dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani.
Nella perizia troviamo stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2 (sui quali Di Stefano costruisce la sua teoria della falsificazione dei dati da parte della Marina indiana), altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3d.
Non si menziona mai, in tutta la perizia, nessuna fonte ufficiale dei tecnici indiani che, come abbiamo visto, hanno depositato in tribunale l’esito delle loro indagini il 18 maggio. Di Stefano aveva addirittura presentato il suo lavoro durante un convegno alla Camera dei deputati il 16 aprile, un mese prima che fossero disponibili i risultati delle perizie indiane!
In quell’occasione i Radicali hanno avanzato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri Terzi, chiedendo sostanzialmente: «Ma se abbiamo mandato i nostri tecnici in India e loro non hanno detto nulla, perché dobbiamo stare a sentire Di Stefano?»
Il lavoro di Di Stefano, in definitiva, è viziato sin dal principio dall’analisi di dati clamorosamente incompleti, costruito su dichiarazioni inattendibili e animato dal buon vecchio sentimento di superiorità occidentale nei confronti del cosiddetto Terzo mondo.
Se qualcuno ancora oggi ritiene che una simile perizia artigianale sia più attendibile di quella ufficiale indiana, cercare di spiegare perché non lo è potrebbe essere un inutile dispendio di energie.


[ UPDATE 8 gennaio 2013: Di Stefano in persona è intervenuto nei commenti qui sotto… e mal gliene incolse. Oltre a ulteriori, serissimi dubbi sulla sua “analisi tecnica” (ricapitolati qui), ne sono emersi anche sul suo buffo curriculum, sulla sua laurea (si fa chiamare “ingegnere” ma non risulta lo sia), sui suoi trascorsi e su precedenti, non meno raccogliticce “perizie”. Dulcis in fundo: presentato come tecnico super partes, in realtà Di Stefano è un dirigente del partitino neofascista Casapound. Suo figlio Simone è il candidato di Casapound alla presidenza della regione Lazio. Con Casapound, Di Stefano anima un “comitato pro-Marò”.
Dopo che la discussione/inchiesta ha portato alla luce queste cose, Di Stefano è stato raggiunto dal Fatto quotidiano e ha ammesso di non essere andato molto più in là di una ricerca sul web, di non aver mai avuto contatti diretti con fonti indiane e di aver ricevuto alcuni dati da analizzare da giornalisti italiani suoi amici, omettendo di verificarli alla fonte primaria.
Costui si aggirava da anni al centro o alla periferia di inchieste cruciali (Ustica, Ilva etc.), presentato dai media mainstream e dalle destre (fascisti e berluscones) come “esperto”, senza che nessuno avesse mai pensato di verificarne i titoli, la reale competenza, i metodi impiegati e chi gli dava copertura politica. Eppure non sarebbe stata un’inchiesta difficile, tant’è che per scoprire certi altarini sono bastati due giorni di discussione seria su un blog.
Naturalmente, sia Di Stefano sia i suoi amici di estrema destra, dopo aver accusato il colpo, han cercato di rispondere facendo il free climbing sugli specchi e gridando al complotto internazionale ai loro danni. — WM ]

UNGHIE SUI VETRI: «NON SONO STATI LORO A SPARARE!» 
Altra tesi particolarmente in voga: non sono stati i marò a sparare, c’era un’altra nave di pirati nelle vicinanze, sono stati loro.
Nel rapporto consegnato in un primo momento dai membri dell’equipaggio dell’Enrica Lexie alle autorità indiane e italiane (entrambi i Paesi hanno aperto un’inchiesta) si specifica che Latorre e Girone hanno sparato tre raffiche in acqua, come da protocollo, man mano che l’imbarcazione sospetta si avvicinava all’Enrica Lexie. Gli indiani sostengono invece che i colpi erano stati esplosi con l’intenzione di uccidere, come si vede dai 16 fori di proiettile sulla St. Antony.
Il 28 febbraio il governo italiano chiede che al momento dell’analisi delle armi da fuoco siano presenti anche degli esperti italiani. La Corte di Kollam respinge la richiesta, accordando però che un team di italiani possa presenziare agli esami balistici condotti da tecnici indiani.
Gli esami confermano che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony.
Staffan De Mistura, sottosegretario agli Esteri italiano, il 18 maggio ha dichiarato alla stampa indiana: «La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo».
I più cocciuti, pur davanti all’ammissione di colpa di De Mistura, citano ora il mistero dellaOlympic Flair, una nave mercantile greca attaccata dai pirati il 15 febbraio, sempre al largo delle coste del Kerala. La notizia, curiosamente, è stata pubblicata esclusivamente dalla stampa italiana, citando un comunicato della Camera di commercio internazionale inviato alla Marina militare italiana. Il 21 febbraio la Marina mercantile greca hacategoricamente escluso qualsiasi attacco subito dalla Olympic Flair.
A questo punto possiamo tranquillamente sostenere che: 1) l’Enrica Lexie non si trovava in acque internazionali; 2) i due marò hanno sparato. Sono due fatti supportati da prove consistenti e accettati anche dalla difesa italiana, che ora attende la sentenza della Corte suprema circa la giurisdizione.
Secondo la legge italiana ed i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati.
La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali.
A livello internazionale vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (SUA Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India.
La sentenza della Corte Suprema di New Delhi, prevista per l’8 novembre ma rimandata nuovamente a data da destinarsi, dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in futuro.
Il caso dei due marò, che dal mese di giugno sono in regime di libertà condizionata e non possono lasciare il Paese prima della sentenza, sarà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale.
IMPRECISIONI, DIMENTICANZE, SAGRESTIE E ROMBI DI MOTORI
In oltre 10 mesi di copertura mediatica, la cronaca a macchie di leopardo di gran parte della stampa nazionale ha omesso dettagli significativi sul regime di detenzione dei marò, si è persa per strada alcuni passaggi della diplomazia italiana in India e ha glissato su una serie di comportamenti “al limite della legalità” che hanno contraddistinto gli sforzi ufficiali per «riportare a casa i nostri marò». In un altro articolo pubblicato su China Files il 7 novembre, avevo collezionato le mancanze più eclatanti. Riprendo qui quell’esposizione.
Descritti come «prigionieri di guerra in terra straniera» o militari italiani «dietro le sbarre», Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in realtà non hanno speso un solo giorno nelle famigerate carceri indiane.
I due militari del Reggimento San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan su L’Espresso, in India sono trattati col massimo riguardo e, in oltre otto mesi, non hanno passato un solo giorno nelle famigerate celle indiane, alloggiando sempre inguesthouse o hotel di lusso con tanto di tv satellitare e cibo italiano in tavola. Tecnicamente, «dietro le sbarre» non ci sono stati mai.
Un trattamento di lusso accordato fin dall’inizio dalle autorità indiane che, come ricordavaCarola Lorea su China Files il 23 febbraio, si sono assicurate che il soggiorno dei marò fosse il meno doloroso possibile:
«I due marò del Battaglione San Marco sospettati di aver erroneamente sparato a due pescatori disarmati al largo delle coste del Kerala, sono alloggiati presso il confortevole CISF Guest House di Cochin per meglio godere delle bellezze cittadine.
Secondo l’intervista rilasciata da un alto funzionario della polizia indiana al Times of India, i due sfortunati membri della marina militare italiana sarebbero trattati con grande rispetto e con tutti gli onori di casa, seppure accusati di omicidio.
La diplomazia italiana avrebbe infatti fornito alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte del menu finanziato dalla polizia regionale. Il danno e la beffa.»


Intanto, l’Italia cercava in ogni modo di evitare la sentenza dei giudici indiani, ricorrendo anche all’intercessione della Chiesa. Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana. Due di queste sono direttamente imputabili alle istituzioni italiane.
In primis, aver coinvolto il prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica. Il sottosegretario agli Esteri De Mistura si è più volte consultato con cardinali ed arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire anche un canale “spirituale” con i parenti di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15 febbraio.
L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo il quotidiano Tehelka, ha accusato i ministri della fede di «immischiarsi in un caso penale», convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori.

Il 24 aprile, inoltre, il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giudiziario. O meglio, secondo il ministro della Difesa Di Paola si è trattato di «una donazione», di «un atto di generosità slegato dal processo».
Alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300mila euro. Dopo la firma, entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa.
Raccontata dalla stampa italiana come un’azione caritatevole, la transazione economica è stata interpretata in India non solo come un’implicita ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori.
Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di Delhi ha criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo tra le parti, dichiarando che la vicenda «va contro il sistema legale indiano, è inammissibile.»


Ma il vero capolavoro di sciovinismo è arrivato lo scorso mese di ottobre durante il Gran Premio di Formula 1 in India. In un’inedita liaison governo-Il Giornale-Ferrari, in poco più di una settimana l’Italia è riuscita a far tornare in prima pagina il non-caso dei marò che in India, dopo 8 mesi dall’incidente, era stato ampiamente relegato nel dimenticatoio mediatico.

Rispondendo all’appello de Il Giornale ed alle «migliaia di lettere» che i lettori hanno inviato alla redazione del direttore Sallusti, la Ferrari ha accettato di correre il gran premio indiano di Greater Noida mostrando in bella vista sulle monoposto la bandiera della Marina Militare Italiana. Il primo comunicato ufficiale di Maranello recitava:

«[…] La Ferrari vuole così rendere omaggio a una delle migliori eccellenze del nostro Paese auspicando anche che le autorità indiane e italiane trovino presto una soluzione per la vicenda che vede coinvolti i due militari della Marina Italiana.»




La replica seccata del Ministero degli Esteri indiano non si fa attendere: «Utilizzare eventi sportivi per promuovere cause che non sono di quella natura significa non essere coerenti con lo spirito sportivo

Pur avendo incassato il plauso del ministro degli Esteri Terzi, che su Twitter ha gioito dell’iniziativa che «testimonia il sostegno di tutto il Paese ai nostri marò», la Scuderia Ferrari opta per un secondo comunicato. Sfidando ogni logica e l’intelligenza di italiani ed indiani, l’ufficio stampa della casa automobilistica specifica che esporre la bandiera della Marina «non ha e non vuole avere alcuna valenza politica
In mezzo al tira e molla di una strategia diplomatica improvvisata, così impegnata a non scontentare l’Italia più sciovinista al punto da appoggiare la pessima operazione d’immagine del duo Maranello-Il Giornale, accolta in India da polemiche ampiamente giustificabili, il racconto dei marò – precedentemente «dietro le sbarre» –  è continuato imperterrito con toni a metà tra un romanzo di Dickens e una sagra di paese.
Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che
«i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro
L’operazione, qui in India, ha raggiunto esclusivamente un obiettivo: far inviperire ancora di più le schiere di fanatici nazionalisti indiani sparse in tutto il Paese.
Ma è lecito pensare che la mossa mediatica, ancora una volta, non sia stata messa a punto per il bene di Latorre e Girone, bensì per strizzare l’occhiolino a quell’Italia abbruttita dalla provincialità imposta dai propri politici di riferimento, maltrattata da un’informazione colpevolmente parziale che da tempo ha smesso di “informare” preferendo istruire, depistare, ammansire e rintuzzare gli istinti peggiori di una popolazione alla quale si rifiuta di dare gli strumenti e i dati per provare a capire e pensare con la propria testa.
PARLARE A CHI SI TAPPA LE ORECCHIE
In questi mesi, quando provavamo a raccontare la storia dei marò facendo due passi indietro e includendo doverosamente anche le fonti indiane, ci sono piovuti addosso decine di insulti. Quando citavamo fonti dai giornali indiani, ci accusavano di essere «come un fogliaccio del Kerala»; quando abbiamo provato a spiegare il problema della giurisdizione, ci hanno risposto «L’India è un paese di pezzenti appena meno pezzenti di prima che cerca di accreditarsi come potenza, ma sempre pezzenti restano. E un pezzente con soldi diventa arrogante. Da nuclearizzare!»; quando abbiamo cercato di smentire le falsità pubblicate in Italia (come la memorabile bufala di Latorre che salva un fotografo fermando una macchina con le mani e si guadagna le copertine indiane come “Eroe”) ci hanno dato degli anti-italiani, augurandoci di andare a vivere in India e vedere se là stavamo meglio. Ignorando il fatto che, a differenza di molti, noi in India ci abitiamo davvero.





Quando tutta questa vicenda verrà archiviata e i marò saranno sottoposti a un giusto processo – in Italia o in India, speriamo che sia giusto – sarà bene ricordarci come non fare del cattivo giornalismo, come non condurre un confronto diplomatico con una potenza mondiale e, soprattutto, come non strumentalizzare le nostre forze armate per fini politici. Una cosa della quale, anche se fossi di destra, mi sarei vergognato.
[ Update 5 gennaio 2013: dopo mesi e mesi di propaganda a senso unico e rintocchi assordanti di una sola campana, quest’articolo è stato un sasso nello stagno. E’ il più “socializzato” della storia di Giap ed è stato ripreso in lungo e in largo per la rete. La discussione qui sotto è partecipata e ricchissima di spunti, approfondimenti, correzioni, precisazioni, conferme, rilanci, rivelazioni, scoperte. “Pare un film di 007″, ha scritto un commentatore sbigottito, riferendosi ai colpi di scena che si susseguivano rapidi. Mentre scriviamo, si sfiorano ormai i 300 commenti, con decine di sotto-discussioni ramificate, compresa la vera e propria inchiesta collettiva su metodi e titoli del dicentesi ingegner Di Stefano. Leggere tutto quanto è appassionante, ma anche impegnativo e non tutti hanno il tempo di farlo. Ci ripromettiamo, noi e Matteo Miavaldi, di preparare e pubblicare un secondo post, che aggiorni, faccia il sunto della discussione, affronti i punti critici, tenga accese le braci di un’informazione diversa sul caso. — WM ]