Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 12 settembre 2015

Polonia e Grecia

 Paul Krugman  

Yannis Ioannides e Christopher Pissarides, in un nuovo Documento Brookings, parlano dei modi in l’assenza di riforme strutturali danneggia la produttività e la competitività della Grecia. Non ho motivi per dubitare che ci siano grosse cose che dovrebbero cambiare e che la Grecia starebbe molto meglio se potesse in qualche modo spezzare le barriere politiche per operare tali cambiamenti.
Ma sosterrei che è molto, molto sbagliato additare fattori che limitano la produttività greca e affermare che tali fattori sono la “causa” della crisi greca. La bassa produttività esige un prezzo da ogni economia; normalmente non crea, o non dovrebbe creare, crisi finanziarie e un’enorme depressione deflattiva.
Si consideri, in particolare, un raffronto che andrebbe fatto: tra Grecia e Polonia. La Polonia, come la Grecia, è un paese della periferia dell’Europa, strettamente collegato al resto dell’economia europea. E’ anche un paese con una produttività relativamente bassa, secondo parametri europei, in effetti una produttività inferiore a quella della Grecia secondo misure internazionali standard:

Ma la Polonia non ha avuto una crisi in stile greco; in realtà non ha avuto alcuna crisi. Invece si è rafforzata, attraverso i tumulti degli anni recenti:


Qual è la differenza? La risposta principale, certamente, è l’euro: adottando l’euro la Grecia ha prima avuto un massiccio afflusso di capitali, poi si è trovata in una trappola, incapace di attuare la necessaria svalutazione reale senza una deflazione incredibilmente costosa.
Ogni volta che qualcuno afferma che il problema greco è in realtà quello dell’offerta, si dovrebbe chiedere non se ci sono problemi di offerta – ci sono – ma perché ciò dovrebbe condurre al collasso. La Grecia sembra avere circa il 60 per cento della produttività della Germania, il che significa che dovrebbe avere solo salari reali pari a circa il 60 per cento di quelli tedeschi. Non dovrebbe avere una disoccupazione al 25 per cento.

I Robin Hood al contrario

Comitato lavoratori Quota96 Scuola


Ormai siamo al paradosso, all'inversione della realtà, a prendere dai malcapitati dipendenti e trasferire il frutto della rapina a chi ha già tanti soldi.
Oggi è l'ultima puntata di una sequenza di scelte antipopolari che gli ultimi governi perseguono nei confronti di lavoratori e pensionati. Non bastasse la vergogna delle ruberie di una classe politica, ormai più adusa a gestire i propri affari e coprire i propri compari, assistiamo all'ennesimo furto di soldi a disposizione per le salvaguardie degli esodati e di chi è rimasto impigliato negli orrori della norma Fornero sulle pensioni, sequestrando con un atto che definire anticostituzionale è il minimo.
Vi è una legge approvata dallo Stato italiano che prevede un fondo destinato alle salvaguardie fino alla risoluzione delle questioni rimaste aperte.
In modo sfacciato, senza ritegno, stravolgendo regolamenti e leggi e con il silenzio assordante di chi dovrebbe proteggerti e far rispettare le leggi dello Stato e di un parlamento che dire inutile è poco, sbeffeggiato nei suoi diritti come sono lo sono stati anche ad agosto 2014, quando è stato modificato l'emendamento su Q96.
Il MEF decide all'improvviso che i soldi non utilizzati, malgrado l'interpretazione contraria del Ministero del Lavoro vengano incamerati nel Bilancio dello Stato per poter assolvere alle promesse elettorali che il nuovo governo in crisi nei sondaggi sta lanciando, in primo luogo sulla tassa sulla prima casa.
Si intende tagliare le tasse sulla casa anche a chi ha appartamenti con rendite elevate e a questo scopo si lasciano sulla strada migliaia di persone senza più reddito (esodati) e anche chi aspetta da tre anni che gli venga ripristinato un diritto ormai riconosciuto dal Parlamento in più occasioni (Q96, personale viaggiante e altri).
Un Robin Hood al contrario! E si spaccia questo scippo come difesa degli strati più in difficoltà, quando si sa che in queste operazioni i maggiori risparmi li ottengono coloro che hanno rendite catastali più elevate.
Nessun cambio di verso, ma solo la continuazione della politica che da Monti in poi vede nel risparmio sulle pensioni l'unica politica atta a far cassa, sia per risolvere il debito lasciato dagli sperperi dei diversi governi, sia per poter risalire nei sondaggi elettorali in vista delle prossime elezioni.
I Quota96 assistono ormai increduli a uno sfacciato uso delle istituzioni, prigioniere del governo di turno, che invece di tassare rendite e privilegi, usa il Bilancio dello Stato per le proprie mire elettoralistiche.
In questi anni hanno continuato una battaglia insieme agli esodati, nel silenzio complice dei sindacati concertativi, che mai si sono impegnati in iniziative reali per costringere il governo ad affrontare tutta la partita delle pensioni.
Insieme a esodati e macchinisti riprendono le iniziative per ottenere i diritti che gli sono stati derubati, organizzando un primo presidio davanti al Ministero Economia e Finanza a partire dalla prossima settimana, mentre si preparano altre forme di lotta, anche legali.

venerdì 11 settembre 2015

Europa in crisi. Riforme o rivoluzione?

Rimini, 5-6 settembre

Cronaca della due giorni organizzata dal Pdac

a cura della redazione web
 
Sabato 5 e domenica 6 settembre, a Rimini, si è tenuta l'assemblea nazionale sull'Europa organizzata da Alternativa Comunista. Al centro della discussione, che ha visti impegnati un centinaio di compagne e compagni, il tema “Europa in crisi. Riforme o rivoluzione”, che consideriamo cruciale nell'attuale fase del conflitto di classe, e in particolare nelle nuove dinamiche che si sono delineate nel continente europeo.
Tra gli intervenuti nel dibattito (ne citiamo solo alcuni, scusandoci con gli altri) attivisti di importanti realtà sindacali e di lotta, in particolare: Marco Manodoro, del Comitato operaio della Bridgestone di Bari, in lotta contro un piano aziendale (concertato coi burocrati sindacali) che vuole peggiorare drasticamente le condizioni di lavoro di centinaia di operai sotto la minaccia del licenziamento; Nicoletta Dosio, storica compagna del Movimento No Tav, da più di vent'anni in lotta contro i diversi governi che hanno tentato di imporre una grande opera inutile contro la volontà popolare della Valle; Tiziano Terri, cassintegrato della Electrolux e attivista della Cub Toscana nonché membro del coordinamento nazionale di No Austerity; Annalisa Roveroni, attivista del movimento in solidarietà con la rivoluzione siriana. Insieme a loro, decine di altri compagni provenienti da tutto il Paese e che hanno partecipato in modo costruttivo alle intense due giornate di discussione teorica e politica. Tra gli ospiti, la compagna Julia Eberhard, membro della Segreteria nazionale delle donne del Pstu (il nostro partito fratello in Brasile) nonché attivista del Movimento Donne in Lotta (Mml).
 
La lotta di classe in Europa: un processo di progressiva radicalizzazione
Dopo la presentazione iniziale della compagna Patrizia Cammarata, che ha anticipato i principali temi di questa Due giorni, si è tenuta la prima relazione, del compagno Matteo Bavassano, che ha riguardato le dinamiche della lotta di classe in Europa negli ultimi anni. Dinamiche che hanno visto al centro milioni di donne, giovani e lavoratori, in lotta contro le politiche di austerità imposte dalla troika e dai governi ad essa sottomessi. Sono stati citati il caso del Portogallo, della Spagna e del movimento degli Indignados che nel 2011-12 ha riempito le piazze del Paese, della Grecia e di altre situazioni che hanno conosciuto una importante radicalizzazione nella lotta contro questo sistema in profonda crisi, sociale, economica e politica. Nella sua relazione Bavassano ha anche analizzato come questi movimenti si siano andati a combinare con i processi rivoluzionari che hanno scosso il Nord Africa e il Medio Oriente a partire dalla fine del 2010, la cosiddetta Primavera araba, e con il movimento di Occupy Wall Street, che ha rappresentato un caso inedito di lotta di classe nel cuore dell'imperialismo. Inoltre si sono citati anche gli importanti processi in corso nell'America latina, ed in particolare in Brasile, dove a partire dal giugno 2013 imponenti mobilitazioni hanno posto in discussione il governo di Dilma Roussef e del Pt di Lula, per anni preso come esempio di buona politica riformista da gran parte della sinistra mondiale (e anche italiana). Lotte, quelle in Brasile, che vedono alla sua direzione un influente e combattivo partito, il Pstu, sezione brasiliana della Lega internazionale dei lavoratori, di cui il Pdac è sezione italiana.
 
Il neoriformismo europeo e le sue prospettive: il caso di Syriza in Grecia
Questi importanti processi, per quel che riguarda l'Europa, in assenza di un partito rivoluzionario che si ponesse alla testa delle lotte, hanno visto crescere elettoralmente, come sottoprodotto, il progetto neoriformista implementato da formazioni politiche come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia. Il caso specifico della Grecia e dello sviluppo di Syriza, fino alla capitolazione di Tsipras alle direttive della troika, è stato analizzato dalla seconda relazione, tenuta dal compagno Adriano Lotito.
Lotito è partito dal delineare la forte crisi del debito che ha colpito il paese ellenico come conseguenza della progressiva penetrazione delle banche imperialiste, in particolare tedesche, e che si è tradotta in politiche di attacco feroce alle condizioni materiali della classe lavoratrice. In conseguenza di questa guerra sociale promossa dall'imperialismo, le masse popolari greche hanno intrapreso un percorso di radicalizzazione della lotta che ha portato a ben 35 scioperi generali nel giro di pochi anni, a centinaia di scioperi di categoria, e ad una ininterrotta mobilitazione che ha visto decine di migliaia di persone cingere d'assedio il parlamento e cercare di prenderlo d'assalto (maggio 2010). Come espressione distorta di questo movimento, si ha, a partire dal 2012, la rapida ascesa elettorale di Syriza, fino alla vittoria alle elezioni dello scorso gennaio. Un partito nel quale la stragrande maggioranza della sinistra europea si è identificata e in cui le masse popolari greche hanno visto, secondo noi a torto, le ragioni della loro lotta e del rifiuto delle politiche di austerità. Le illusioni nei confronti di questa prospettiva riformista sono però presto cadute con l'esperienza governativa appena conclusasi e la vergognosa firma dell'accordo del 13 luglio, che peggiora una volta di più le condizioni della classe lavoratrice e delle categorie sociali più deboli in Grecia. Lotito ha poi compiuto un breve excursus storico, mostrando come tutti i casi che hanno visto la sinistra andare al governo dentro il capitalismo e cercare di riformare il sistema senza una rottura rivoluzionaria, si siano tradotti in gravi sconfitte per il movimento operaio. Di qui il motivo per cui, fin da prima che si formasse il governo Tsipras, la nostra posizione è stata quella di una inflessibile opposizione nei confronti di un progetto del genere. Un'opposizione che oggi deve sfociare nella costruzione, a sinistra di Syriza, di quella direzione rivoluzionaria che manca e di cui c'è un assoluto bisogno.
 
L'Unione europea: una “macchina da guerra” contro le masse popolari
La relazione conclusiva della giornata di sabato ha visto il compagno Valerio Torre spiegare gli interessi di classe che si nascondono dietro l'Unione europea, e che negli ultimi anni si sono espressi chiaramente fino a mostrare la loro autentica essenza proprio nel caso della Grecia. Fin dal primo europeismo del Manifesto di Ventotene, questo progetto ha visto infatti porre in primo piano la necessità di un libero movimento dei capitali, il quale implica sin dal principio un intensificarsi dello sfruttamento della classe lavoratrice del continente con un forte attacco a diritti e condizioni materiali delle masse popolari. L'Unione europea nasce proprio con l'intento di coordinare lo sfruttamento dei lavoratori dei diversi Paesi, organizzando al contempo l'esportazione dei capitali fuori dal continente, anche con mezzi militari. L'euro in questo senso è stato lo strumento per eccellenza utilizzato in questa guerra sociale: uno strumento che imponendo dei tassi di cambio fissi ha impedito le svalutazioni competitive della moneta consentendo alla borghesia di scaricare la totalità dei costi del suo dominio sulla pelle dei lavoratori e approfondendo i processi di colonizzazione ai danni delle economie “deboli” del continente (anche in questo caso la Grecia, assieme ai Paesi dell'Europa orientale, rappresenta il caso paradigmatico). In conclusione della relazione, Torre ha avanzato le rivendicazioni principali del nostro programma sull'Europa: per una rottura con l'euro e l'Ue che, lungi dal tradursi in un ritorno al sovranismo monetario in chiave nazionalista (quale è la soluzione proposta dai vari populismi sorti in questi anni e fatta propria anche dallo stalinismo), deve inquadrarsi in un'alternativa di sistema che passa per l'esproprio delle banche e delle grandi aziende e per la loro gestione da parte dei lavoratori, in una prospettiva internazionalista che dovrà svilupparsi attorno alla parola d'ordine degli Stati uniti socialisti d'Europa.
Dopo le tre relazioni c'è stato uno spazio di dibattito in cui diversi compagni e compagne sono intervenuti, apportando il loro contributo alle tematiche sviluppate. Ricordiamo qui l'intervento del compagno Terri che ha posto l'esigenza primaria di unire le lotte dei lavoratori e dei movimenti in un fronte unitario contro il governo Renzi: di qui il senso di creare il coordinamento No Austerity, e l'importanza della campagna di lotta lanciata contro la firma dell'Accordo “vergogna”, l'accordo sulla rappresentanza sindacale firmato da padroni e confederali il 10 gennaio del 2014 che mette in discussione la libertà di azione sindacale. Un accordo al quale ha capitolato recentemente anche la direzione di Usb (precedentemente quella dei Cobas Lavoro Privato) e in ragione del quale si sono sviluppate forti contraddizioni nel sindacalismo di base. Da evidenziare anche l'intervento di Riccardo Bella, compagno attivo nella mobilitazione per la solidarietà con la rivoluzione siriana, che ha criticato le prese di posizione della maggior parte della sinistra (in particolare stalinista) in merito al sostegno al dittatore Assad, ricordando di essere stato vittima di una vera e propria aggressione da parte degli stalinisti per le sue posizioni. Applauditissimo l'intervento del compagno Marco Manodoro, del Comitato operaio della Bridgestone di Bari, cui la platea ha fatto sentire tutta la propria solidarietà, solidarietà che il Pdac già esprime concretamente con l'impegno dei propri militanti in Puglia a fianco degli operai in lotta. Moltissimi in sala gli studenti e i militanti dei Giovani Comunisti Rivoluzionari, in prima fila nelle lotte contro la "Buona scuola" di Renzi. A conclusione di questa prima giornata, nella serata del sabato, si è avuto un momento conviviale in cui i compagni e le compagne hanno potuto socializzare e conoscersi meglio, davanti ad una bottiglia di birra gelata.
 

La lotta delle donne: un asse centrale nel conflitto di classe e nella costruzione di un progetto rivoluzionario
La mattina della domenica si è tenuta la tavola rotonda sulla lotta delle donne, un momento molto significativo che ha visto la partecipazione di diverse compagne con un ruolo di prima fila all'interno delle mobilitazioni. Annalisa Roveroni è intervenuta sottolineando il ruolo primario e centrale della famiglia nell'oppressione sociale della donna. Nicoletta Dosio ha illustrato l'importante ruolo giocato proprio dalle donne all'interno della mobilitazione contro il Tav in Val Susa e ha ricordato come il nostro compito debba essere quello di costruire il conflitto in vista di una società più giusta ed egualitaria, che sia basata sul motto marxiano: “da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo le proprie necessità”; un conflitto che non può fare a meno anche di pratiche dure di opposizione, come il sabotaggio nel caso del Tav. Fabiana Stefanoni, dell'Esecutivo nazionale del Pdac, ha posto in evidenza il carattere sociale ed economico dell'oppressione delle donne: un'oppressione che è funzionale a divedere la classe lavoratrice e ad incrementare lo sfruttamento finalizzato a una sempre maggiore accumulazione di capitale. In questo senso la lotta delle donne deve procedere di pari passo con la lotta più generale della classe lavoratrice contro un sistema capitalista che si sviluppa anche promuovendo la discriminazione di genere. Proprio per questo è necessario che all'interno dei sindacati e dei partiti del movimento operaio si sviluppi una discussione intorno a questi temi e si imbastisca una battaglia inflessibile contro il maschilismo, anche contro quel maschilismo più subdolo e nascosto che facilmente si radica appunto nelle organizzazioni del movimento operaio e di lotta. In merito a questo, molto importante è stato l'intervento di Julia Eberhard del Pstu brasiliano, che ha posto come centrale la battaglia contro il maschilismo all'interno del partito come negli ambiti di lotta in cui interveniamo. La compagna ha anche portato l'esperienza del Movimento donne in lotta, che raggruppa diverse migliaia di donne della classe operaia in Brasile e che sta portando avanti importanti mobilitazioni per i diritti delle donne e contro il sistema sociale ed economico che vuole negarli. Ultima, ma non meno importante, la partecipazione di Niovis Naples, lavoratrice della Yoox di Bologna e attivista del Si Cobas, che ha raccontato della radicale lotta che le operaie di Bologna stanno combattendo contro i soprusi e le discriminazioni, oltre che le molestie sessuali, che diverse lavoratrici hanno per molto tempo dovuto subire da un caporeparto del magazzino presso cui lavoravano (in gestione alla cooperativa Mr.Job). A seguito di questa lotta, e della più generale mobilitazione che il Si Cobas ha animato nei magazzini del bolognese, i padroni della Yoox vogliono espellere dal lavoro le lavoratrici più combattive e sindacalizzate, e contro queste manovre è partita una grande mobilitazione con azioni di sciopero. A introdurre e moderare la discussione, annodando con efficacia i fili dei diversi interventi, è stata la compagna Conny Fasciana, membro del Comitato Centrale del Pdac. Si è trattato di una tavola rotonda continuamente attraversata dagli echi della lotta di classe nel nostro Paese: Nicoletta Dosio ha dato notizia di nuovi arresti, sopraggiunti proprio in quelle ore, di giovanissimi attivisti No Tav, a cui la platea ha tributato un lungo applauso di solidarietà; Niovis Naples ha fatto appello a sostenere il loro sciopero di questi giorni e Conny Fasciana, da sempre attiva nelle lotte antirazziste in Sicilia, ha ricordato il dramma degli immigrati che arrivano in Europa e incontrano la repressione. Infine, la compagna Roveroni ha mostrato alcune suggestive immagini e illustrato la situazione drammatica che sta attraversando la Siria, focalizzando l'attenzione sull'esigenza di opporsi tanto all'Isis quanto agli attacchi della dittatura di Assad, e parlando dell'importante esperienza delle donne curde che lottano contro gli islamisti e che animano i processi rivoluzionari in corso nei cantoni del Rojava.
 
Costruire un partito rivoluzionario internazionale, risolvere la crisi di direzione dell'umanità
La conclusione di questa bella e intensa due giorni di discussione è stata affidata al compagno Francesco Ricci, dell'Esecutivo del Pdac, il quale ha ripercorso il filo rosso dei dibattiti, mettendo in luce i punti principali affrontati dall'assemblea. Innanzitutto la ferma opposizione dei rivoluzionari davanti a qualsiasi progetto governista, teso a riformare il sistema senza porsi la necessità di abbatterlo. Ricci ha sviluppato diversi esempi storici, non ultimo il caso di Rifondazione comunista, che per due volte è andata al governo con la borghesia cosiddetta progressista (primo e secondo governo Prodi) e per due volte si è resa complice di orrende politiche ai danni della classe lavoratrice (con la votazione tra l'altro del Pacchetto Treu, prima legge precarizzante del lavoro, e delle missioni militari imperialiste, dall'Afghanistan al Libano, per citare solo alcuni provvedimenti). Davanti alle parole di Bertinotti, che invitava i compagni scettici a “mangiare il budino” prima di esprimere un giudizio su una possibile collaborazione al governo con i partiti della borghesia, i rivoluzionari rispondevano che questo budino è stato mangiato dal movimento operaio per 150 anni e che ogni volta ciò ha portato a enormi sconfitte e danni che ancora oggi fanno sentire il loro peso sulla lotta di classe (come dimostra l'esito disastroso della recente “prova del budino” in Grecia). Ricci ha anche, sarcasticamente, ricordato la ignobile conclusione della parabola di Bertinotti (che non a caso è stato definito come proprio maestro da Tsipras): dal "ritorno a Marx" di 15 anni fa, passando per la riscoperta di Benedetto Croce e del pensiero liberale due anni fa, quest'anno infine Bertinotti è approdato al meeting reazionario di Comunione e Liberazione, dove ha spiegato a Formigoni e a una divertita platea la "morte del comunismo". La vicenda di Bertinotti è una fotografia di quell'ipocrisia dei dirigenti riformisti che si esprime in questi giorni anche davanti alla tragedia degli immigrati affondati e marchiati. Non hanno il diritto di commuoversi davanti a questa barbarie, ha urlato Ricci, quei dirigenti di Sel e Rifondazione che non solo non contrastano le politiche di rapina dell'imperialismo che sono alla base della migrazione, ma che, quando erano al governo, hanno approvato tutte le leggi razziste e l'apertura dei lager per gli immigrati. E oggi ancora, in nome di un presunto realismo, propongono una "regolazione dei flussi" migratori.
Ricci ha ricordato infine che bisogna risolvere il “problema dei problemi”: quello della direzione politica delle lotte. Le lotte da sole, infatti, non bastano, come dimostra anche la vicenda greca. E' necessario costruire un partito rivoluzionario che si ponga alla testa delle masse su un programma di rottura con il capitalismo e per la presa del potere da parte dei lavoratori. Un partito che il Pdac, assieme agli altri compagni della Lit (Lega internazionale dei lavoratori - Quarta internazionale), sta costruendo quotidianamente, partendo dalle lotte, in tutti i quattro continenti: la Lit è infatti presente in più di trenta Paesi, essendo oggi, nei fatti, la più dinamica e diffusa organizzazione rivoluzionaria internazionale. E, nel caso particolare del Brasile, sta anche svolgendo un ruolo di direzione nelle mobilitazioni della classe operaia contro il governo di fronte popolare di Dilma e Lula: tra l'altro il Pstu, come ha ricordato Ricci nelle sue conclusioni, sta promuovendo in queste settimane, con la Csp Conlutas e altre organizzazioni politiche e sindacali, due importanti giornate di mobilitazione, il 18 e 19 settembre.
Le note dell'Internazionale, lo storico inno del movimento operaio, hanno accompagnato la chiusura dell'assemblea, tra la soddisfazione di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a questa due giorni davvero importante, per farci tornare, con più consapevolezza e coraggio, all'interno delle mobilitazioni che ci vedranno protagonisti nella nuova stagione che inizia. 

11 settembre 1973

Alfonso Cardamone


Allende Salvador compagno per te
un canto sottotono
io non so
il divano insanguinato alla Moneda
né gli affanni di chi non volle
armare le masse proletarie
compagno Allende la coda di pavone
che ignobile nigredo putrefece di fascisti
pinocchi traditori ma so
per certo so le tue parole
che forti più del piombo pagato dai padroni
come rosse lettere ai Corinti si rifecero
rosse
nel rosso della gola
compagno Allende in martyria
sottotono per te
i giuda di Cristo non potranno più per te
ingannare più nessuno.
Alfonso (1973)

foto clip a cura di Luciano Granieri

giovedì 10 settembre 2015

Lettera aperta ad un cittadino frusinate

Luciano Granieri

Caro cittadino frusinate,
vorrei confessarti  il  malessere che mi avvolge come  persona che condivide con te  stesso luogo di vita.  La nostra città  ha subito negli ultimi decenni, ma in particolare nell’ultimo triennio, un processo di impoverimento drammatico. Le famiglie senza reddito sono più di 8.000, le piccole attività commerciali chiudono (avrai notato che su Via Aldo Moro sono in maggioranza le serrande abbassate di quelle aperte).  L’ inquinamento ha  raggiunto livelli inusitati, tanto da conferire alla nostra città la palma della più inquinata d’Italia. Il gestore dell’acqua fa il bello e cattivo tempo imponendo tariffe spropositate ed in ospedale ai medici chirurghi è consentito operare solo entro le  15,00 , se un paziente volesse procedere comunque all’intervento oltre l’orario prestabilito dovrebbe pagare all’ospedale lo straordinario del chirurgo. 

Tu ci vivi bene in questa città? Forse si, magari uno si adatta, si consola con la squadra di calcio in serie A, si abbandona alle  giulive feste tutte   noccioline,  porchetta  e balli di gruppo,  gira  i vari  mercatini itineranti, mentre i negozi come detto chiudono. Io non ci vivo bene. Certamente saprai che le pene della nostra città non sono il frutto di un desino cinico e baro, ma delle nefandezze degli amministratori comunali , passati e presenti, i quali mai hanno avuto a cuore il benessere di tutti cittadini, ma solo di una parte  di loro. Di quella parte cioè che da sempre ha dettato legge dall’alto della sua prosperità economica spesso conseguita a danno della collettività. 

Non so se lo sai, ma nell’ultimo bilancio votato dal consiglio comunale sono venuti fuori altri 27miloni di debito . Debito di cui non siamo responsabili evidentemente, ma che dovremo ripianare  in 30 anni. Un ulteriore ammanco che si aggiunge ad una già devastata situazione economica . Un disastro per cui   il sindaco Ottaviani chiese nel 2013 la procedura di riequilibrio finanziario (predissesto)  con un  piano di rientro 530mila euro all’anno per 10 anni. Tutto ciò impone a noi cittadini enormi sacrifici per consentire all’Ente di realizzare risparmi pari a quasi un milione e mezzo annui. Bisogna augurarsi che scuole ed edifici pubblici non subiscano danni perché non ci sarebbero i soldi per ripararli. 

Saprai anche che sulla correttezza e veridicità  del documento contabile licenziato dal consiglio un anonimo  , ma preparatissimo,  funzionario comunale ha inoltrato un esposto agli organi competenti denunciando gravi irregolarità sulla definizione dei debiti ed in particolare di quei dannatissimi 27milioni. Ebbene questa situazione aggiunge rabbia al mio malessere. E’ una rabbia che deriva dall’osservare come di fronte ad una ipotizzata  truffa ordita da Sindaco, giunta, consiglio e revisori dei conti,ai danni dei cittadini  nessuno, né i  nostri rappresentanti  locali eletti a livello provinciale, regionale, parlamentare, né la maggior parte della stampa  e forse neanche tu cittadino frusinate avvertiate il bisogno di approfondire la vicenda,  chiederne  conto ad un Ente che dimentica perfino di pubblicare sull’albo pretorio le delibere scomode. 

Allora mi domando. Vista la smisurata voglia di mettere la testa sotto la sabbia, non sarebbe stato meglio, dichiarare direttamente il dissesto finanziario del Comune? Il sindaco Ottaviani si vanta, e per questo viene trattato di eroe, di aver evitato il fallimento dell’Ente riuscendo ad ottenere l’accesso al piano di riequilibrio finanizario ma la differenza fra le due procedure per noi cittadini non cambia.  Il dissesto prevede che le imposte locali, le aliquote e le tariffe siano elevate alla misura massima consentita, oggi è già così. Il costo di gestione dei servizi a domanda diretta (mense scolastiche, scuolabus, assistenza agli anziani) deve essere interamente coperto dalle tariffe , oggi è già così. Nella situazione di dissesto deve essere ridimensionata la spesa per il personale, la vicenda dei lavoratori della Multiservizi dimostra che ciò è avvenuto anche nel nostro comune ancora non dissestato. 

Dunque dissesto o predissesto per noi pari sono . Ma per gli amministratori  la faccenda cambia. In caso di dissesto la Corte dei Conti deve indagare su chi e perché è stata raggiunta una situazione debitoria insostenibile, comminando pene agli amministratori responsabili, in base alle quali questi per 10 anni non potranno ricoprire cariche amministrative,  ne candidarsi a sindaco, consigliere provinciale o regionale, a senatore, deputato, italiano ed europeo. 

Scoprire i colpevoli e bandirli dalla politica non sarebbe stato  male, anche come monito per le future amministrazioni.  Inoltre un  altro grande vantaggio del dissesto, concerne l’impossibilità per  il Comune di  sperperare soldi, come accade oggi, in feste, festini, improbabili rievocazioni religiose, e nuovi stadi. 

 Caro cittadino frusinate, forse sarebbe stato meglio un onesto e trasparente fallimento piuttosto che un improprio galleggiamento su acque torbide e melmose, nelle quali saremo comunque destinati ad affogare. Scusa caro cittadino se ti ho tediato con queste mie elucubrazioni, ma se non vogliamo affogare occorre innanzitutto rendersi conto di essere immersi in pericolose sabbie mobili e unirsi tutti quanti per tirarci fuori dalla melma.

Un abbraccio

Luciano Granieri.

Il Parlamento europeo vota per il diritto umano all'acqua in Europa!

Movimento europeo per l'Acqua - European Water Movement

Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua

Il voto di ieri al Parlamento Europeo è una grande vittoria per la democrazia, la società civile e per ciascuno degli oltre 2 milioni di cittadini che hanno firmato l'iniziativa dei cittadini europei, ICE, sul diritto all'acqua.
La relazione sul seguito da dare all'ICE “Right2Water”, sostenuta al Parlamento europeo a maggioranza, è passata senza grandi cambiamenti, nonostante un contromozione proposto dal PPE e dei gruppi ECR.

La posizione del Parlamento europeo sul diritto all'acqua è chiara!
La Commissione è ora chiamata ad attuare il diritto all'acqua in Europa attraverso la produzione di strumenti legislativi efficaci per rendere il diritto umano all'acqua e ai servizi igienico-sanitari una realtà.
L'acqua è definita come un bene vitale e necessario per la dignità umana e non può essere trattata come una merce. Pertanto, i servizi idrici devono essere esclusi da accordi commerciali, come ad esempio il TTIP.

La Commissione è tenuta, altresì, a non promuovere la privatizzazione dei servizi idrici nel contesto delle misure di austerità e ad escludere l'acqua, i servizi igienico-sanitari e di smaltimento delle acque reflue dalle regole del mercato interno.
E 'la vittoria per il diritto umano all'acqua, ma è anche una vittoria contro TTIP e l'austerità!

La relatrice, la deputata irlandese Lynn Boylan, ha dichiarato: "una prima risposta della Commissione all'ICE era vaga, deludente e ha fatto poco per rispondere alle richieste [dei cittadini]. In questa relazione io e i colleghi progressisti ci siamo uniti per produrre un rapporto che desse risposte migliori alla loro campagna."

Il voto di oggi dimostra che la pressione dei cittadini è efficace e determinante, dato che persino alcuni deputati del PPE e ECR, alla fine, hanno votato a favore della mozione.

Per questo motivo, pur lodando il Parlamento europeo per questo voto, il Movimento europeo per l'Acqua vuole anche congratularsi con tutte le organizzazioni della società civile che si sono impegnate nella mobilitazione. 
Inoltre vogliamo ringraziare ognuno dei più di 11.200 cittadini europei che, nel corso degli ultimi 4 giorni, ha scritto ai parlamentari europei (incluso chi ha partecipato all'azione comune on-line) spingendoli a votare a favore del diritto all'acqua!

Come Movimento europeo per l'Acqua ci aspettiamo che la Commissione abbia, alla fine, una reazione positiva e propositiva: vogliamo che il diritto umano all'acqua sia una realtà per i cittadini europei!

mercoledì 9 settembre 2015

La Germania kantiana, il nuovo spirito umanitario e altre boiate: cosa c’è dietro l’apertura tedesca ai migranti siriani. Con un’intervista a Vladimiro Giacchè.

Collettivo Militant

La questione migranti può essere affrontata nei modi più disparati, ma tutti a loro modo fruttuosi per la politica europeista. Lungi dal costituire un “problema”, i migranti sono lo strumento perfetto per aggregare consensi o dissensi, a seconda dei casi. Possono consolidare una leadership o, all’inverso, essere utilizzati per combattere la linea politica avversa. E’ la manna dal cielo per le difficoltà in cui spasima la politica continentale, l’elisir di lunga vita che consente ai governi (e ai media dipendenti) di spostare l’attenzione dai problemi reali a quelli indotti, mentre al tempo stesso alimenta il consenso delle opposizioni populiste e/o direttamente razziste. Oltretutto, da che mondo è mondo, i migranti fruttano anche e soprattutto economicamente. Insomma, se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. In effetti, gli attuali flussi migratori sono stati proprio inventati, nel senso letterale del termine, con un ventennio di bombardamenti in giro per il medioriente, di regime change, di guerre umanitarie, di ingerenze esterne. Sono in tutto e per tutto il frutto avvelenato delle politiche occidentali nei diversi territori col tempo trasformati in failed states.
Nel giro di qualche giorno, la Germania si è trasformata da “Stato canaglia”, inviso agli spiriti umanitari in sofferenza per la Grecia, a Stato illuminato, progressista, in linea con l’umanitarismo cattolico e la solidarietà internazionale. Un capitale di consenso veicolato dalle più bizzarre interpretazioni mediatiche, che descrivono in questi giorni la Germania come faro della civiltà europea. Comprendere perché la Germania abbia apparentemente aperto il suo territorio ai migranti, capire perché solo essa abbia attuato tale cambio di passo e non invece altri paesi, e perché solo per alcuni migranti e altri no, costituisce il problema che dovremmo affrontare in qualche modo. Già oggi, infatti, ci troviamo impreparati al consenso indotto verso il modello tedesco. Se l’unico punto di vista alternativo al “modello Salvini”, cioè al razzismo xenofobo, è quello cristiano benissimo rappresentato da Papa Francesco, è chiaro che le attuali scelte politiche tedesche, riprendendo il modello dell’accoglienza cristiana, risultino convincenti anche per le sinistre radicali. Ci troviamo stretti tra due narrazioni velenose: o immaginiamo uno scarto intellettuale capace di costruire un punto di vista alternativo, o la partita rimarrà giocata tra la reazione piccolo borghese e il pietismo cristiano. Ecco perché è importante capire cosa c’è dietro la svolta tedesca.
Partiamo anzitutto dai numeri. Dal 1 gennaio al 31 agosto, i profughi siriani che hanno chiesto asilo in Italia sono 155 (centocinquantacinque). Il numero è talmente basso da non risultare neanche statisticamente rilevante. Il paese dove hanno trovato rifugio in maggior numero è la Germania, dove sono in attesa di risposta 30.000 siriani. Nella sola Turchia trovano asilo circa 2 milioni di siriani, e nel resto dei paesi limitrofi (Giordania, Libano, Iraq, Iran), circa altri 2 milioni. Il totale dei siriani emigrati in Europa è oggi di circa 250.000 persone. I richiedenti asilo nel complesso, invece, sono, dal 1 gennaio al 30 giugno 2015, 171.000 in Germania e 25 mila in Italia.
Più in generale, il numero degli immigrati giunti in Italia nel 2014 è stato di 114.000 unità, mentre nel 2015, a fine agosto, è di 112.000 persone. Un leggero incremento, valutando la proiezione annuale, ma pur sempre fisiologico e soprattutto che non rimpiazza neanche la popolazione italiana, che conta 597 mila decessi l’anno in media. Visto che i nati sono circa 500 mila, ogni anno la popolazione italiana perde quasi 100 mila unità, rimpiazzate proprio dai circa 100 mila migranti che decidono di rimanere nel nostro paese.
Questi i numeri , che descrivono una situazione alquanto diversa dall’invasione raccontata dai media e cavalcata dalla politica. Ma come spiegare politicamente l’inversione di tendenza tedesca di fronte al problema migranti? Qui la questione si fa più delicata perché è ancora presto per tentare spiegazioni articolate e fondate su dati di fatto riscontrabili. Siamo ancora “dentro” gli eventi, eventi di portata tale che per analizzarli servirebbe maggiore distacco. Nonostante ciò, qualche riflessione si può comunque tentare. Da diversi anni la Germania ha assunto per il continente europeo il ruolo che gli Stati Uniti hanno svolto (e ancora svolgono), lungo tutto il corso del Novecento su scala globale. Un territorio dalla crescita costante, bisognoso di mano d’opera e in fase di spopolamento (o, nel caso statunitense, notevolmente sotto-popolato). La Germania attira mano d’opera, qualificata e no, svuotando le competenze dei paesi più o meno limitrofi. La mano d’opera può essere sia qualificata (la “fuga dei cervelli”), sia sotto-qualificata, sfruttata per mantenere basso il costo del lavoro fungendo da strumento per la compressione dei salari. Proprio nella struttura produttiva tedesca si possono individuare le cause del suo assorbimento dei flussi migratori. Nonostante la costante crescita economica, la popolazione lavoratrice tedesca rimane tra le più povere dell’Europa “ricca”, con una domanda interna bloccata da un decennio abbondante. L’economia tedesca fonda la propria struttura sull’export, basato su un livello di produttività interna che riesce a reggere i livelli dei paesi asiatici. Tutto questo è possibile solo grazie ad una politica di compressione dei salari, politica possibile grazie all’enorme quantità di migranti disposti a lavori sottopagati e/o sottoqualificati. A differenza degli altri paesi simili (Francia, Spagna, Italia, Inghilterra), in Germania c’è carenza di mano d’opera, perché il suo livello di produttività impone una costante massa di “sottosalariati” che mantengano basso il livello medio dei salari in funzione del livello di produttività.
Questi i dati di fatto. Per comprendere meglio lo scenario politico di questi ultimi giorni abbiamo chiesto a Vladimiro Giacchè, fra le altre cose anche importante studioso delle questioni tedesche, un’opinione in merito all’apparente cambio nella politica tedesca sui migranti. Una riflessione importante, che contribuisce in maniera decisiva alla comprensione del fenomeno migratorio e alle differenti scelte politiche dei governi occidentali. Queste le sue parole.

V.G.: “Il cambiamento è evidente, siamo di fronte a un’inversione di marcia rispetto a pochi mesi fa. Fino ad agosto la CDU ha di fatto sostenuto, giustificato con affermazioni abbastanza ambigue e in altri casi in maniera più esplicita, le proteste contro l’accoglimento dei rifugiati, non di rado promosse da gruppi neonazisti. Segnalo che ad agosto  sia nei Lander orientali sia in zone molto ricche della Germania, quali la Baviera e il Wurttemberg , si sono registrati diversi episodi di assalti a ostelli di rifugiati. Questi avvenimenti sono stati in larga parte ignorati dalla grande stampa tedesca, fatta eccezione per i giornali di sinistra.  Recentemente sull’onda dell’indignazione per la famosa foto del bambino siriano morto su una spiaggia, c’è stato un repentino cambiamento di posizione. Questo mutamento ha motivazioni economiche e politiche. Una motivazione economica è molto semplice, e stranamente non l’ho vista molto considerata: la Germania è il paese più anziano del mondo. Si contende questo primato con il Giappone, cioè ha un tasso demografico che non consente la sostituzione della popolazione attuale.
Questo crea problemi di sostenibilità del bilancio pubblico e per il sistema pensionistico in particolare. Di fatto l’immigrazione, soprattutto di manodopera qualificata, come nel caso specifico, dove gran parte dei rifugiati siriani hanno una scolarità media molto elevata, è in realtà un beneficio economico per la Germania.
Questo è un punto assolutamente fondamentale per capire la questione. Rispetto a questa considerazione è passato in secondo piano anche il desiderio, che sino a poche settimane fa era molto chiaro, di assecondare o non ostacolare le spinte interne xenofobe e paranaziste presenti in parte dell’elettorato tedesco. Questa è la principale motivazione economica.
C’è anche una motivazione politica, che sta nel recupero dell’immagine della Germania, che usciva malissimo dalla vicenda greca, in cui ha fatto la parte del cattivo in Europa. In larga parte dell’opinione pubblica di molti paesi europei, per ragioni diverse, non è ben vista. Questo è un punto molto importante della scelta politica che sta al fondo del mutamento. C’è anche una demarcazione, sicuramente, rispetto a Francia e Inghilterra, paesi che sono stati molto meno disponibili e lo sono tuttora ad accogliere profughi e che sono tra i principali responsabili di questi stessi profughi.
Per cui con questa mossa la Germania  ha una vittoria diplomatica. Detto questo,  la mossa tedesca contiene una dose di ipocrisia molto notevole che noi dovremmo mettere in rilievo, senza pensare a improbabili conversioni della Germania oppure dimostrazioni che i tedeschi non sono poi così cattivi, come vedo pensare nella nostra sinistra. Perchè i tedeschi non sono nè cattivi nè buoni, hanno semplicemente una classe dirigente che fa costantemente gli interessi della grande finanza e della grande industria di quel paese, a scapito di quelli dei lavoratori del paese.
Va anche detto che tra i responsabili della tragedia siriana e libica la Germania ha sicuramente responsabilità minori di Francia e Inghilterra, ma ha pesantissime responsabilità in quanto grande esportatrice di armi verso tutti i paesi dell’area mediorientale, a cominciare dall’Arabia Saudita verso le varie parti in conflitto. La Germania ha ulteriori gravi responsabilità perchè è tra i promotori in Europa del vergognoso embargo contro la Siria di Assad, nonchè dei tentativi, almeno in parte riusciti di destabilizzazione di quel paese.
Ha responsabilità, in prima linea superiori ad altri, nella destabilizzazione dell’Ucraina, ma anche per quanto riguarda il Medio Oriente non è esente da colpe e coinvolgimenti. Di tutto questo nessuno parla. Ma questa è l’origine dei rifugiati, che non sono più migranti, ma rifugiati, gente che scappa dalle bombe dalla guerra.
In sostanza, l’Occidente ha distrutto un paese che è la Libia, sta distruggendo un altro paese che è la Siria. I risultati sono questi.
Allora è importante farsi carico di questi  risultati, ma come sa chiunque abbia un minimo di impostazione materialistica, tu devi impedire alla radice che questo avvenga e se questo avviene è per una precisa e predominante responsabilità dei paesi occidentali e in particolare di quei paesi che si raccolgono nella Nato.
Ripeto, dal punto di vista dei bombardamenti sulla Libia la Francia e l’Inghilterra hanno avuto un ruolo centrale, con anche un parziale contributo dell’Italia e non la Germania. Ma la Germania è nazione fondamentale del patto atlantico, è l’architrave della Nato e poi  è una delle principali produttrici di armi nel mondo. Questo mi sembra un punto non secondario che viene costantemente ignorato.
In sintesi il beneficio economico per la Germania  è innegabile da questa vicenda dell’accoglimento dei rifugiati. Da ciò ne consegue anche una pressione sulla forza lavoro interna, perchè è evidente che questa massa di rifugiati accetta condizioni di lavoro peggiori dei lavoratori tedeschi e contribuisce a mantenere  la vergogna, in cui in uno dei paesi a maggiore produttività del lavoro, i salari sono fermi da quindici anni. Questa dinamica tenderà ad abbassare il costo medio del lavoro, anzi aiuta a comprimere quella tendenza a un recupero dei salari che si era avvertita negli ultimi mesi.
Mentre è al momento è poco chiaro quanto la Germania sia intenzionata a far si  che questa manovra (l’accoglimento dei rifugiati) sia un ulteriore contributo a destabilizzare Assad, cioè se uno dice: noi ci prendiamo i rifugiati però bisogna a questo punto buttare giù il tiranno oppure no!
Finora i tedeschi hanno sempre avuto una posizione più cauta dei francesi e degli inglesi.
Staremo a vedere.

martedì 8 settembre 2015

COME ABBIAMO FERMATO LA MARCEGAGLIA

Massimiliano Murgo. Fonte: http://www.lacittafutura.it/

La lotta degli operai alla Marcegaglia Buildtech di Milano contro licenziamenti e deportazione. Bilancio di una prima battaglia vinta. Ora si riparte con un anno di lotta per il lavoro.

In una fase di enorme debolezza del movimento operaio italiano, il governo Renzi incarna in maniera esemplare gli interessi padronali e cerca di approfottarne per distruggere definitivamente qualunque residuo dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Sotto l’egida renziana, la Confindustria si sente “garantita” ed i padroni licenziano, chiudono, precarizzano, disdicono gli accordi aziendali, intensificano al massimo li sfruttamento. Ma piccole grandi battaglie, come quella dei 7 operai della Marcegaglia contro uno dei più reazionari padroni d’Italia, dimostrano che ribellarsi non solo è giusto, ma è possibile e con la dovuta determinazione può essere vincente.
Un breve sunto della storia. La vertenza in fabbrica è cominciata un anno fa. L’azienda della famiglia Marcegaglia ha deciso di ridimensionare radicalmente la sua “Bad Company”, il ramo Buidtech che si occupa di produzione dipannelli sandwich e profilati e tubi a freddo per l’edilizia industriale. L’obiettivo era di ridurre i 4 stabilimenti a uno solo, insediato nel piccolo paese piemontese di Pozzolo Formigaro. Viene praticamente chiuso per primo lo stabilimento di Graffignana (LO), poi tocca allo stabilimento di Taranto chiuso con un accordo e, infine, l’anno scorso grazie ad un accordo separato firmato da FIM e UILM dopo due mesi di lotta di una parte dei lavoratori dello stabilimento (col sostegno invece della FIOM), Marcegaglia ha avviato lo smantellamento della fabbrica milanese per trasferire parte degli impianti produttivi proprio a Pozzolo Formigaro. 83 dei 167 lavoratori in forza a Milano hanno alla fine accettato la messa in mobilità e il licenziamento definitivo dietro un miserabile “incentivo” di 30.000 euro. Altri 60 hanno accettato la “deportazione” col trasferimento con navetta aziendale a Pozzolo Formigaro (un’ora e mezzo di autobus a tratta). 20 impiegati sono stati trasferiti in un altro ufficio di Milano. Di 167 operai soltanto 7 (fra cui chi scrive), consapevoli delle difficoltà conseguenti, hanno deciso di far valere una parte dell’accordo – inserita probabilmente per imbellettarlo – che prevedeva la possibilità di essere ricollocati in uno dei 4 stabilimenti del gruppo limitrofi alla città di Milano, previo accesso ad un ulteriore anno di cassa integrazione straordinaria.
Il solo fatto di non aver accettato e dato credito al piano aziendale di “trasferimento e rilancio delle produzioni” - o accettato la “buona uscita” - ha acceso un odio profondo del padrone nei confronti di questi sette operai, tant’è che a giugno scorso ha tentato addiruttura di licenziare non aprendo il secondo anno di cassa integrazione e imponendo la deportazione a spese proprie presso lo stabilimento di Pozzolo (800 euro al mese i costi di trasporto a carico dei lavoratori). La reazione è stata immediata. Sapevamo benissimo che l’azienda non avrebbe regalato nulla. A Milano a fine giugno si lavorava ancora più di un terzo della produzione dei pannelli per costruzioni industriali, il core business della Buildtech spa; bisognava quindi bloccare la produzione, bloccare le merci in uscita, la materia prima destinata a Pozzolo e colpire l’azienda nell’immagine, uno dei terreni a cui tiene principalmente.
Eravamo pochi, l’unica possibilità per tenere in scacco uno stabilimento di 80.000 mq era di occuparlo, ma i numeri non giocavano a nostro favore. Una occupazione vera è propria non era possibile. Per cui abbiamo deciso di bloccare l’unico reparto produttivo, presidiando i carroponte e il tetto per rendere impossibile la produzione e il carico delle merci. Era chiaro a tutti noi che in pochi non avremmo potuto reggere all’infinito in quella situazione, che dovevamo far di tutto per guadagnare tempo, scongiurare il licenziamento per fine luglio, riattivare la possibilità del ricollocamento con la cassa e progettare un anno di lotta per riavere il lavoro.
Marcegaglia è potente, siede in decine di consigli di amministrazione, e riesce ad avere un certo controllo anche sulla stampa che per i primi 3 giorni di occupazione non fa un accenno alla nostra lotta. Intanto la produzione è completamente bloccata e ci pensa l’azienda a trovare il modo per far scoppiare il bubbone sulla stampa. Comunica di essere interessata a riprendere la produzione e al sesto giorno si presenta allo stabilimento con 30 agenti della Digos e 150 celerini di fronte a un presidio di una trentina di compagni e compagne solidali con la nostra lotta. Era il momento in cui dovevamo sfondare il muro mediatico, pressare il più possibile l’azienda e arrivare alla riapertura della cassa integrazione senza licenziamenti.
Il capo del personale spingeva la Digos a caricare gli operai. In stile ventennio, l’ufficiale del padrone comanda le truppe. La tensione sale alle stelle. A quel punto un operaio si appende ad una fune dal tetto (in tutta sicurezza, ovviamente), ma dal lontano cancello dove la celere sta per caricare sembra un fatto molto più “drammatico”. I poliziotti pronti a pestare a sangue il presidio tornano nei ranghi, direttore e capo del personale impallidiscono, si agitano pompieri e ambulanze, i pochi crumiri tornano a casa e, finalmente, la stampa nazionale e locale parla di noi.
Era fatta. L’azienda ha rinunciato a rientrare a lavorare a Milano finchè non avessimo lasciato l’occupaione spontaneamente e di lì a pochi giorni, prima in prefettura e poi al Ministero del Lavoro, abbiamo definito l’accordo di cassa. L’azienda aveva offerto 29.000 euro per andarcene in mobilità e lasciarci per strada, ma nessuno di noi 7 ha abbandonato la lotta. Ora siamo tutti e 7 in cassa (quindi formalmente ancora dipendenti) e stiamo progettando la lunga lotta per il lavoro. È doveroso sottolineare che la FIOM di Milano, pur nelle grandi difficoltà organizzative in cui versa, ha condiviso tutte le scelte che abbiamo fatto, sostenendole in trattativa e pubblicamente.
I limiti di questa vertenza sono stati tantissimi. La debolezza degli altri operai in fabbrica che hanno mollato il colpo già un anno fa, ad esempio. Cosa che si inquadra priorio nella fase di sfiducia e debolezza generale del movimento operaio e sindacale a cui accennavo all’inizio; un tessuto sociale frantumato e una tendenziale incapacità di costruire legami di solidarietà con le altre lotte; la grandissima debolezza delle forze della sinistra di classe, anticapitaliste e antagoniste, sul territorio che non sono in grado di mobilitare i numeri e le qualità necessarie a supportare battaglie di questo tipo. Questa lotta, nel suo piccolo, incarna perfettamente lo scontro attuale fra capitale e lavoro.
È, in piccoli numeri, la lotta contro la ristrutturazione, la speculazione, contro il Jobs Act di Renzi e, di fatto, rivendica dichiaratamente la redistribuzione del lavoro che c’è, per lavorare meno e tutti attraverso il ricollocamento degli operai negli altri stabilimenti del gruppo, limitrofi a Milano, nei quali il livello di intensità dello sfruttamento del lavoro è altissimo e ci sarebbe bisogno di altra manodopera. La lotta degli operai dimostra che con l’organizzazione, la determinazione, l’intelligenza di classe è possibile abbattere muri giganteschi, piegare la volontà di padroni forti e reazionari, riscrivere il nostro futuro. Dimostra che è necessario ricomporre le lotte e la classe lavoratrice, perché attraverso l’unità e il rilancio del conflitto nei luoghi di lavoro e fuori forse è possibile rimettere in discussione gli attuali rapporti di forza fra le classi.
Non ci può essere nessuna “sinistra” ormai nel nostro paese che non si ponga apertamente l’obiettivo di ricomporre e riorganizzare i lavoratori e le lavoratrici, il proletariato delle città e delle periferie, i più colpiti dall’austerità europea. Al massimo ci si propone di “rappresentare” elettoralmente questi soggetti. Non è sufficiente. Quando ci si scontra con un padrone, e a maggior ragione con uno così forte, bisogna concentrare nello scontro e nella mobilitazione tutte le forze possibili, perché se ricominciamo a vincere i lavoratori e le lavoratrici tutte possono riprendere fiducia nel conflitto e in una prospettiva di classe.
La nostra lotta non è finita. E’ appena cominciata. Ora dobbiamo riconquistarci il lavoro e durante tutto quest’anno sarà uno stillicidio di iniziative di lotta, di blocco della produzione e degli straordinari negli stabilimenti in cui dobbiamo essere ricollocati. Sarà necessario il sostegno concreto di tutti e tutte. E la nostra lotta sarà ancora a disposizione del processo di ricomposizione e rilancio del conflitto di classe.
Ma da soli non ce la possiamo fare. Abbiamo messo in programma un giro diINCONTRI e assemblee in tutta Italia per raccontare la vertenza, stabilire legami solidali e di ricomposizione, organizzare l’unità e il conflitto comune contro i padroni e il loro governo. Delle forze di tutti abbiamo bisogno perchè isolati siamo piccoli numeri da gestire, uniti possiamo tornare ad essere una classe con cui fare i conti.

I 7 operai della marcegaglia di Milano sono a disposizione di collettivi, comitati, circoli e associazioni di lotta per organizzare assemblee e dibattiti per raccontare la lotta e costruire assieme percorsi ricompositivi a livello locale e nazionale. 

Per contatti: Massimiliano 3494906191 -fazzolettirossi@gmail.com

Per organizzareo un anno di conflitto contro il padrone della Marcegaglia hanno bisogno di sostegno sia politico-sindacale che economico. Per questa ragione gli operai (Alfredo, Cristian, Franco, Gianni, Massimiliano, Roberto e Sergio) hanno deciso di lanciare una piccola cassa di resistenza a sostegno della loro lotta.

Contatti: fazzolettirossi@gmail.com – 3494906191

PER INVIARE CONTRIBUTI ALLA CASSA DI RESISTENZA:
RICARICA POSTA PAY N° 4023600585120662 INTESTATA A DE CLEMENTE ROSARIA

lunedì 7 settembre 2015

8 settembre 1974: la polizia uccide Fabrizio Ceruso

Tratto da Infoaut.org

Il 5 settembre 1974 la polizia decide di intervenire con un ingente schieramento di forze nella borgata di San Basilio, all'estrema periferia est di Roma, per sgomberare le 150 famiglie che da più di un anno occupano alcuni appartamenti IACP in via Montecarotto e via Fabriano.
La risposta popolare non si fa attendere: fin dalle prime ore del mattino vengono bloccati gli ingressi del quartiere con barricate di pneumatici, vecchi mobili e altri oggetti. La polizia spara centinaia di lacrimogeni, ma è costretta a ritirarsi e a sospendere gli sfratti.
Sabato, dopo che una delegazione si è recata in pretura e allo IACP per cercare una mediazione, la polizia cerca di riprendere gli sgomberi. Questa volta oltre agli occupanti e agli attivisti dei Comitati ci sono a resistere anche centinaia di manifestanti, tra i quali numerosi membri dei consigli di fabbrica.
A fine giornata, dopo un susseguirsi di “tregue” per tentare quella che si rivelerà una trattativa-farsa, si raggiunge un accordo di sospensione degli sfratti fino al lunedì mattina.
Domenica 8, però, la polizia irrompe di nuovo nelle case occupate abbandonandosi ad atti di vandalismo. Gli scontri riprendono immediatamente.
Alle 18, l'assemblea popolare, organizzata dal Comitato di Lotta per la casa di San Basilio nella piazza centrale della borgata, viene caricata con lacrimogeni sparati ad altezza uomo.Fabrizio Ceruso, militante di 19 anni dei Comitati Autonomi Operai, viene colpito in pieno petto da una pallottola.
I compagni lo caricheranno su un taxi per portarlo in ospedale, ma vi giungerà ormai senza vita.
La rabbia popolare esplode violentemente, tutto il quartiere scende in strada. I pali della luce vengono
abbattuti, migliaia di manifestanti si aggregano agli abitanti del quartiere, assediando la polizia, che si rifugia nel campo di calcio della  parrocchia.

Ma tanto sferragliare di truppe non è servito a niente,
il sole rosso è rimasto nei tuoi occhi,
la rabbia proletaria già l’ha detto,
« Compagno Fabrizio noi ti vendicheremo »,
assassini di stato, la pagherete
e pagherete tutto
Ma tanto sferragliare di truppe non è servito a niente,
il fiore rosso rimasto sul tuo petto
il pianto amaro di tuo padre,
il rumore prodotto nella coscienza di tanti,
anche l’odio è prezioso quando il popolo prepara la riscossa.
“A Fabrizio Ceruso”
tratto da www.infoaut.org



Il progressivo commissariamento della società

Militant. Collettivo Politico Comunista Sezione della Rete Nazionale Noi Saremo Tutto

La divisione delle curve romane imposta dal Prefetto Gabrielli è un episodio intimamente correlato alla gestione commissariale della città. Ne descrive il senso politico, quello di una lotta senza quartiere agli spazi di autogestione delle classi popolari. Pensare che il fatto non ci riguardi sarebbe reiterare l’errore storico di considerare la questione curve qualcosa di diverso, o di altro, o di avverso, alla questione delle classi subalterne e alle loro modalità d’espressione e di riproduzione. Magari nascondendosi dietro la scelta soggettiva di alcune curve di schierarsi apertamente a destra. Un po’ come abbandonare i quartieri popolari perché nel frattempo egemonizzati da un certo razzismo fascio-leghista. Uno dei tanti errori di prospettiva della sinistra radicale, che ha relegato non solo il calcio, ma ogni fenomeno dello sport professionistico a “questione capitalista”, in quanto tale da combattere, non riconoscendo lo sport – anche e soprattutto agonistico e professionistico – come collegato direttamente e storicamente alla natura umana fondata sulla cooperazione sociale. Un evento sociale occupato dalla valorizzazione capitalistica ma non per questo “in sé” capitalista. Non è però il momento per le questioni filosofiche, quanto capire perché la repressione del tifo organizzato sia un episodio particolare della più generale guerra alle classi subalterne. Da decenni lo stadio è il luogo dove determinate tecniche repressive vengono testate per poi essere generalizzate nei diversi contesti sociali. Quando parliamo di “tecniche repressive” non ci riferiamo ai tecnicismi repressivi, cioè l’utilizzo di questo o quello strumento particolare: l’uso di determinati lacrimogeni; la dinamica delle cariche delle forze dell’ordine; la speciale procedura amministrativa o giuridica; eccetera. C’è anche questo, ma il problema è più a monte. E’ la gestione del controllo sociale di un determinato ambiente e le tecniche di controllo in un contesto difficile e/o tendente all’autodeterminazione. E’ un dato di fatto che per lunghi anni, tra i ’70 e i ’90, le curve sono state dei veri e propri luoghi di aggregazione popolare autogestita. Al di là dell’oggetto in questione, cioè il tifo per una squadra, l’autorganizzazione in sé, cioè il mancato controllo della macchina giuridico-repressiva, ha posto più di un problema allo Stato quale attore titolare del monopolio della forza e della legge. Nelle curve questo monopolio era quantomeno mediato da una volontà popolare organizzata che aveva la forza di imporre un suo punto di vista e una sua modalità alternativa. Fin qui rimaniamo però nel campo tutto sommato dell’ovvio e della sociologia di classe. Dall’inizio degli anni Duemila il fenomeno ha subito la rivoluzione delle pay-tv. Come scrivevamo qualche tempo fa, il tifo organizzato è oggi “il nemico principale dei processi di valorizzazione economica dello spettacolo calcio. Se fino agli anni novanta una certa parte di profitto delle società proveniva ancora dai biglietti venduti al botteghino, da un ventennio a questa parte la quota economica derivante dallo stadio è venuta sempre meno, fino a diventare completamente irrilevante per la gestione finanziaria delle società di calcio. Il risultato è che una qualsiasi società potrebbe benissimo andare avanti economicamente senza tifosi allo stadio. Questo processo si scontra però con le necessità del pacchetto televisivo/mediatico, che prevede la copertura delle partite in quanto eventi sociali, che dunque hanno necessariamente bisogno di una cornice di pubblico tale da giustificare lo spropositato interesse che determina la concentrazione mediatica su questo sport. Ogni partita deve essere descritta come *evento*, come qualcosa che catalizza l’attenzione, i bisogni e i desideri di una fascia eterogenea e ampia della popolazione. Per questo, non è possibile una partita di calcio senza pubblico, perché perderebbe quella qualifica di evento sociale che ne determina la giustificazione ideologica tale da promuovere e vendere il prodotto commerciale, che in ultima analisi ha ancora bisogno di spettatori paganti il pacchetto televisivo. Queste due opposte tendenze hanno determinato il percorso di espulsione del tifoso (concetto appartenente al mondo dello stadio), sostituito con quello di spettatore (inerente invece alla dinamica del teatro o del cinema), molto più gestibile in termini di controllo sociale sul fenomeno calcistico e allo stesso tempo facente perfettamente funzioni di pubblico appassionato, almeno nella descrizione mediatica della partita di calcio. La telecamera che inquadra di sfuggita la tribuna descrive migliaia di persone interessate all’evento. L’apparenza è salva e i profitti pure, e tutto questo senza il problema sociale del contropotere rappresentato dal tifo organizzato e dalle sue curve.”  
Non è il pubblico che si vuole colpire, e non c’è un processo voluto di svuotamento degli stadi. Il problema è normalizzare il tifo organizzato risiedente nelle curve. Questo il problema, e la divisione attuale promossa da Gabrielli una parte della soluzione. Il settore più popolare viene continuamente diviso, viene ostacolata una possibile unità d’intenti e di autorganizzazione non gestita dalle istituzioni (o dalle società di calcio, o dalle pay-tv); i tifosi organizzati colpiti da legislazione speciale applicata direttamente dalle Questure e non dalla Magistratura; non c’è alcuna possibile mediazione, perché non c’è riconoscimento: i tifosi organizzati non hanno diritto di rappresentanza. E’ il “pubblico” pagante il solo (e falso) interlocutore possibile. Il parallelo con quello che sta avvenendo nella società, a Roma in particolare, e che abbiamo visto all’opera recentemente con lo sgombero di Degage, dovrebbe risultare lampante. Gli inquilini e i militanti politici, così come i senza casa, i movimenti di lotta, eccetera, non vengono considerati interlocutori possibili. Nessuna mediazione è prevista, perché per essere posta in essere c’è la necessità anzitutto di un riconoscimento della controparte quale espressione di interessi contrapposti; e, in secondo luogo, della politica quale strumento per la mediazione. Il commissariamento della città, episodio più evidente di una pluridecennale lotta contro la “politica” in quanto tale, mascherata da lotta al “partitismo” prima, ai “partiti” dopo, mira ad escludere proprio la politica dalla gestione della cosa pubblica. In assenza di politica, le uniche forze in campo rimangono quelle economiche, il governo senza mediazioni degli attori economici. E questo vale nelle piazze quanto negli stadi. Da anni il movimento ultras è morto e sepolto sotto il peso delle proprie contraddizioni. Ma la loro lotta contro la stretta repressiva operata dal commissario Gabrielli è la nostra lotta, perché il tentativo di pacificazione sociale imposto dal modello commissariale è il medesimo, tanto nelle curve quanto nelle piazze. Se pacificazione ci deve essere, che sia almeno una pacificazione ingestibile.