Le rovine

"Le rovine non le temiamo. Erediteremo la terra. La borghesia dovrà farlo a pezzi il suo mondo, prima di uscire dalla scena della storia. Noi portiamo un mondo nuovo dentro di noi, e questo mondo, ogni momento che passa, cresce. Sta crescendo, proprio adesso che io sto parlando con te"

Buenaventura Durruti

sabato 23 gennaio 2016

Oltre l'Occidente come il Minton's di Harlem

Luciano Granieri


Milton’s  Playhuose, che c’entra con la politica di Frosinone e con l’associazione Oltre l’Occidente?  Per chi è addentro alle cose del jazz l’analogia potrebbe risultare intuibile, per gli altri spieghiamo. Il Milton’s  Playhouse era un localino ricavato dentro due stanze del  Cecil Hotel, sulla 118° Ovest ad Harlem, New York, non lontano da Morningside park. All’inizio degli anni ’40  era meta di jazzisti afroamericani,  i quali, frustrati per le discriminazioni subite, e stanchi  di annullare la loro forza creativa e abilità tecnico-strumentale per rispettare  la  routine  commerciale delle  orchestre swing in cui militavano ,  si ritrovavano  li per ascoltare dischi,  suonare insieme e  sfogare tutta la loro voglia  di rivoluzione musicale. Straordinari musicisti, come Dizzy Gillespie, Roy Eldridge, Lester Young, e in seguito Charlie Parker, dopo essere stati  l’attrazione esotica ad uso e consumo della borghesia bianca, che  ballava al tempo dei riff  delle  orchestre di Benny Goodman, Tommy Dorsey, Earl Hines, e molte altre ,  trovavano al Minton’s  una sorta di condivisione creativa rigeneratrice. 

 
Ugualmente a Frosinone, cittadini, delusi, frustrati,  per la mala politica che  grava sulla città, e qualcuno in preda all’umiliazione della disoccupazione, si ritrovano nei locali di “Oltre l’Occidente” per condividere le loro frustrazioni e provare ad imbastire iniziative, azioni politiche, sociali, culturali, utili a costruire un’alternativa all’asfissiante governo, non solo della città, ma anche dell’intero Paese. Inquinamento, disoccupazione, sanità pubblica provinciale fatiscente,   degrado inesorabile dei servizi,  impacchettati e offerti alla gestione privata, questi  sono i temi che spingono alcuni cittadini a confrontarsi dentro  “Oltre l’Occidente”.

Il Minton’s era aperto a qualsiasi musicista volesse improvvisare insieme al piccolo nucleo di jazzisti  che li si esibivano  tutte le notti, Monk, Gillespie, Guy, e Kenny Clarke. Ma l’impresa non era per tutti. Erano   graditi, solo strumentisti in grado di misurarsi con le idee rivoluzionarie che Gillespie, Parker e compagni, proponevano ogni sera.  Addirittura il gruppetto si riuniva nel pomeriggio per inventare variazioni armoniche estremamente difficili   su cui solo musicisti abilissimi avrebbero potuto improvvisare. Ciò serviva per - come raccontò Gillespie -” scoraggiare i tipi senza talento, chiunque cioè non fosse più che dotato, o meglio ancora geniale  e pronto  a portare un suo personale contributo”.  Anche l’atteggiamento verso il pubblico era particolare, quasi indolente. I ragazzi del Minton’s , gli inventori del Bebop, non  erano ossessionati dalla ricerca dell’applauso a tutti i costi, così come avveniva nelle orchestre swing.  Il fatto che la loro musica divertisse   chi li andava ad ascoltare era aspetto secondario, anzi deleterio.    Erano  invece graditi ascoltatori disposti a fare lo sforzo intellettuale necessario a capire davvero, ad accettare per convinto ragionamento una musica ostica, dura, a volte apparentemente ed epidermicamente  fastidiosa.  

Sotto questo aspetto l’analogia con i ragazzi di “Oltre l’Occidente” non è  completamente aderente. La volontà di chi si riunisce nei locali di Via Aonio Paleario, non è quella, di  escludere chi non propone idee rivoluzionarie , né di rendersi  invisi, ad eventuali ascoltatori.  Resta il fatto  però che il risultato è  escludente, così come al Minton’s.  Sono  accusati, gli habituè di Oltre l’Occidente,  di non saper aggregare la militanza, di essere intransigenti, di non essere in grado  di condurre una lotta insieme ad altre forze e movimenti.  Intransigenti? Forse ma la battaglie  per la sanità pubblica, per l’occupazione, per i servizi pubblici di qualità, per l’ambiente,  devono essere globalmente inserite entro un disegno globale tutto politico,  inerente la lotta contro i poteri finanziari e contro  gli amministratori che tali poteri contribuiscono a mettere sulle poltrone di comando.  

Chi , nell’organizzare  una lotta, qualsiasi essa sia, per la sanità, piuttosto che per l’ambiente, non coglie la globalità che accomuna questi problemi, ma anzi paragona tale analisi a chiacchiere vane, utili solo a perdere tempo, forse è come quel musicista non in grado di improvvisare, su giri armonici nuovi .  Non perché non li capisca, più probabilmente perché  l’obbiettivo non è quello di realizzare una jam session  di alto livello, ma di usare la capacità dei musicisti che lo accompagnano per realizzare  un proprio successo personale, per ottenere, sotto-sotto, l’applauso del pubblico compiacente.  Probabilmente qui si esprime l’intransigenza dei ragazzi di Oltre l’Occidente, i quali non escludono nessuno, ma creano la distonia con tali  musicisti meno dotati. 

Alla fine della storia il Bebop, lo stile rivoluzionario uscito dalle sale del Minton’s fu commercialmente fallimentare. Il pubblico rifiutava quella musica così strana, tanto che molti di quei jazzisti,  o dovettero cambiare genere, edulcorare il loro modo di suonare per campare, o come  Charlie Parker, divenuto poi un mito assoluto, morirono prematuramente. Ma il Bebop, e questo è inconfutabile, determinò gli stilemi che il jazz avrebbe seguito  nel corso di tutta la sua evoluzione e lo stile dei musicisti che lo animarono, influenzerà tutti i jazzisti che vennero dopo.

P.S. L'analogia  fra Minton's e Oltre l'Occidente è una suggestione del tutto  mia personale. Probabilmente non sarà condivisa da chi frequenta la sede di Via Aonio Paleario.  Essa è oltremodo "molto liberamente" ispirata alle dinamiche politiche che movimenti e associazioni svolgono nella nostra città. 



Quando le note del Minton's risuonarono nella sala di "Oltre l'Occidente grazie a Thelonius Monk. E agli Zut 4 abili esecutori di Monk's Dream.

L'ANPI aderisce ai comitati referendari in difesa della Costituzione

ANPI Comitato Nazionale


Nella riunione del Comitato nazionale dell’ANPI, del 21 gennaio, si è ampiamente ed approfonditamente discusso circa la riforma del Senato e la legge elettorale e sulla proposta di aderire ai Comitati referendari già costituiti.
La discussione è stata veramente apprezzabile, per la ricchezza e la serietà delle argomentazioni e per la compostezza del confronto. Si partiva dalla proposta del Presidente di aderire ai Comitati referendari già costituiti sull’una e sull’altra legge, tutta fondata sul tema della coerenza nella intransigente difesa della
Costituzione, secondo la linea perseguita dell’ANPI negli ultimi due anni. Sulla relazione vi sono stati molti consensi e sono state manifestate alcune perplessità e preoccupazioni, che hanno contribuito – anch’esse – alla valenza complessiva del dibattito, consentendo di arrivare, alla fine, ad un voto sostanzialmente unitario (solo tre astensioni).
In effetti, proprio per il contributo della discussione e del confronto, si è pervenuti, non solo all’esito positivo già indicato, ma anche alla definizione – ai fini della chiarezza - delle modalità e delle “condizioni” che devono caratterizzare l’ingresso dell’ANPI nella compagine referendaria. Questi aspetti, resi evidenti ed esposti nelle conclusioni del Presidente, possono essere così sintetizzati:

a. l’ANPI aderisce alla iniziativa referendaria in stretta coerenza con la linea
seguita per due anni sul tema della riforma del Senato e sulla legge elettorale,
qualificata fin dalla prima manifestazione, al Teatro Eliseo di Roma come “una
questione di democrazia”. La conseguenza logica della approvazione delle due
leggi in termini poco diversi rispetto a quelli iniziali, è che la parola va data alle
cittadine e ai cittadini perché si esprimano liberamente, senza pressioni e
soprattutto senza ”ricatti”.

b. nell’aderire ai Comitati referendari già costituiti, l’ANPI mantiene la sua
piena autonomia e la sua piena libertà di azione e di giudizio, impegnandosi
peraltro a contribuire ad un efficace svolgimento della campagna referendaria,
basata, prima di ogni altra cosa, su una corretta e completa informazione delle
cittadine e dei cittadini sui contenuti dei provvedimenti di cui si chiederà
l’abrogazione.

c. l’ANPI non è interessata – nel caso particolare delle riforme – ai problemi
più specificamente “politici” (il “plebiscito”, la tenuta e le sorti del Governo,
etc.); per la nostra Associazione il tema è solo quello dell’intransigente difesa
della Costituzione da ogni “stravolgimento” che rimetta in discussione le linee
portanti (anche della seconda parte) ed i valori di fondo; considera la Riforma
del Senato e la legge elettorale, così come approvate dal Parlamento, un vulnus
al sistema democratico di rappresentanza ed ai diritti dei cittadini, in sostanza
una riduzione degli spazi di democrazia;

d. l’ANPI esclude la collocazione della battaglia referendaria nel recinto di un
qualsiasi schieramento politico, nonché ogni altra opzione politica che non sia
quella, appunto, della salvaguardia della Costituzione;

e. l’ANPI, che attualmente ha oltre 120.000 iscritti e un’organizzazione
estesa all’intero territorio nazionale, deve godere di una rappresentatività
all’interno dei Comitati referendari, adeguata a ciò che essa rappresenta, in
tema di iscritti e di valori;

f. l’ANPI ritiene che - rispetto alle Assemblee pubbliche, pur talora
necessarie - debbano essere privilegiati gli incontri e le iniziative di contatto e
rapporto con i cittadini attraverso la formazione di Comitati locali, ampi ed
aperti e rivolti soprattutto alla popolazione, per informare e convincere sui
complessi temi in discussione;

g. si ritiene opportuno che i Comitati referendari, se non lo hanno già fatto,
provvedano alla costituzione di esecutivi snelli e dotati di particolare
autorevolezza, in grado di coordinare ed intervenire con indicazioni,
suggerimenti e proposte, anche in rapporto con i comitati locali che si andranno
costituendo;

h. l’ANPI si riserva di assumere anche iniziative autonome, ma non
confliggenti con quelle dei Comitati, per informare sulla posizione assunta e
sulle sue caratteristiche anche di autonomia, nonché su tutte le questioni che
riguardano le due leggi in discussione.

Questi sono i connotati fondamentali e le “condizioni” dell’adesione dell’ANPI ai Comitati referendari.
Sotto il profilo interno, è evidente che questo ci impegna a dare il nostro contributo, in sede nazionale e in periferia, allo sviluppo della campagna referendaria, con iniziative, con la costituzione dei Comitati, con tutti i mezzi e gli strumenti di informazione e di convincimento.
Naturalmente, ci sono due condizioni “interne”, perché tutto questo si possa svolgere regolarmente: la prima dipende strettamente dalla concomitanza con la campagna congressuale, che culminerà nel Congresso nazionale a metà maggio. Bisogna riuscire a far bene l’una e l’altra cosa, considerando
l’importanza che assume per la nostra Associazione, il Congresso, che è occasione di confronto, ma anche e soprattutto di definizione della linea che si adotterà per il futuro.
La seconda è che in una associazione pluralista come la nostra ci saranno certamente opinioni anche diverse da quella prevalsa nel Comitato nazionale; e del resto, alcune perplessità e preoccupazioni sono emerse anche in quella sede. Ebbene, la parola chiave è: “rispetto” di tutte le opinioni, pur nel contesto
dell’attuazione delle decisioni assunte. Ognuno sarà libero di votare come crede, quando verrà il momento; ma oggi sono da evitare azioni ed iniziative che contrastino con la linea assunta dal massimo organo dirigente, così come devono essere - da parte di chi è convinto della bontà e della giustezza della decisione adottata – evitati toni e comportamenti che in qualche modo possano apparire prevaricatori. L’ANPI è perfettamente in grado di mantenere la sua preziosa unità se tutti rispettano le regole, le decisioni adottate e – al tempo stesso – le opinioni diverse.
C’è troppo da fare per continuare a discutere all’infinito: c’è il Congresso e ci sarà la campagna referendaria. Dunque, c’è lavoro in abbondanza è c’è, soprattutto, la convinzione e la certezza che ciò che facciamo, in piena autonomia e con assoluta attenzione all’identità ed ai valori dell’ANPI, è funzionale al bene del Paese e della collettività e soprattutto all’intransigente (e non conservatrice) salvaguardia della Costituzione.
Non escludiamo la possibilità di iniziative anche autonome, per illustrare e chiarire la nostra posizione e per indicare positivamente (lo ripeto per l’ennesima volta, non siamo per la conservazione dell’esistente a tutti i costi) ciò che si potrebbe (e si dovrebbe) fare, semmai, per superare alcuni difetti del bicameralismo “perfetto”, senza stravolgere la Costituzione, prendendo esempio anche da esperienze già realizzate in altri Paesi.
Pertanto, è opportuno “attrezzarsi”, conoscere bene la legge di riforma del Senato, conoscere bene la legge elettorale, per poterne indicare e spiegare i difetti, i limiti e le ragioni per cui ne chiediamo la cancellazione.

E’ un momento delicato e complesso; ancora una volta, questo costituirà motivo e stimolo per un impegno solido e convinto.

Deleghe regionali per le province

Comitato di Lotta per il lavoro


Il Consiglio Regionale del Lazio ha licenziato il 31 dicembre scorso la L.R. n. 17 al cui punto 7 stabilisce le “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”
 Ai lavoratori ex Multiservizi ciò rappresenta un’altra tappa nell’inseguimento di quel lavoro perso nel 2013 e che viene alimentato dalle lotte dei lavoratori oramai accampati sotto il comune da quasi due anni e dai tavoli dove si riuniscono periodicamente i soggetti istituzionali.
 All’interno del deliberato dovrebbero essere precisate le condizioni entro le quali i servizi della viabilità provinciale e regionale, come quello di altri servizi, possano essere gestiti dalle province. Passaggio atteso dai lavoratori e dagli enti a fronte degli impegni presi dalla Regione Lazio in illo tempore per aiutare lo start up d’impresa.
 I lavoratori che mantengono una costante pressione sulle istituzioni hanno incontrato dapprima la segreteria di Zingaretti e Buschini della Regione Lazio e oggi la Provincia di Frosinone per chiarire gli intendimenti regionali alla luce del dettato legislativo.
 Pur ribadendo a chiare lettere la volontà di sistemazione dei lavoratori a cominciare dagli  ex Multiservizi sul servizio COSAP, Pompeo rimane non convinto dell’operato regionale che sembra ridurre sensibilmente l’operato delle province e che rimanda ancora una decisione sulla manutenzione delle strade regionali
“Fermo restando l’esercizio da parte della Città metropolitana di Roma Capitale e delle province delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di viabilità ai sensi dell’articolo 1, commi 44 e 85, lettera b), della l. 56/2014”, legge DelRIo di riordino delle province, la Regione esercita le funzioni e i compiti amministrativi concernenti la manutenzione ordinaria e straordinaria della rete viaria regionale. Non è specificato dunque chi effettua la manutenzione.
La Provincia esprime riserve su una formulazione così poco chiara, ma ammette che sono in essere incontri volti, “entro il termine tassativo di trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”, all’adozione della “struttura regionale subentrante nell’esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi non fondamentali, le risorse umane, finanziarie, strumentali e patrimoniali connesse all’esercizio degli stessi[…]”.
Tutto rinviato? Non proprio. La segreteria di Buschini rappresentata da Lucio Migliorelli presente all’incontro insiste invece su due impegni immediati della Provincia: Un impegno politico nel mettere d’accordo gli enti ed uno tecnico nel proporre subito la costituzione della società pubblica nella quale mano mano poter aggiungere i servizi utili.
Si rimane in attesa di una convocazione da parte della Provincia di un nuovo tavolo tra enti entro i primi giorni di febbraio volta ad una definitiva posizione degli enti, a cominciare da quello di Frosinone che continua a prorogare mese dopo  
I lavoratori non demordono, la situazione nonostante il tempo trascorra, rimane aperta su tutti i fronti…     

giovedì 21 gennaio 2016

21 gennaio 1921 - 21 gennaio 2016 a 95 anni dalla nascita del Pcd'I UN PARTITO PER IL POTERE DEI LAVORATORI

Francesco Ricci
 
 
In occasione del 95° anniversario della nascita del Pcd'I, sezione italiana dell'Internazionale Comunista diretta da Lenin e Trotsky, pubblichiamo (con qualche piccolo taglio redazionale) la trascrizione di una relazione tenuta una quindicina di anni fa a una scuola di formazione per militanti.
 
 
TEATRO GOLDONI: UN CONGRESSO MOVIMENTATO
"La frazione comunista dichiara che, pur essendo indiscutibile che la propria mozione è in minoranza, la votazione, per il modo con cui è proceduta e per il mancato funzionamento della Commissione per la verifica dei poteri, non dà nessuna garanzia di regolarità. La frazione comunista dichiara che la maggioranza del Congresso col suo voto si è posta fuori della Terza Internazionale comunista. I delegati che hanno votato la mozione della frazione comunista abbandonino la sala e sono convocati alle 11 al teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della Terza Internazionale."
Poi il verbale, un resoconto stenografico, aggiunge: "I comunisti escono quindi dal teatro Goldoni, cantando l’Internazionale."
Sono le parole, il breve discorso che fa Bordiga per chiamare i comunisti (siamo al 17º congresso del Partito socialista italiano nel gennaio del 1921) che rompono, che scissionano dal Psi, ad andare in un altro teatro dove si terrà un altro congresso che è quello di fondazione del Partito comunista italiano (Pcd'I).
Torniamo ora invece all'altro teatro, cioè al teatro in cui si tengono, prima di questo passaggio finale, le conclusioni del 17º congresso del Psi. E' un congresso caldo. La platea è divisa proprio fisicamente in tre parti. Nei palchi di destra siede la destra del partito, Turati, le cui posizioni sostanzialmente riprendono quelle di Bernstein e della socialdemocrazia revisionista. Turati e Bernstein dicono: la socialdemocrazia crescerà gradualmente fino ad arrivare al socialismo. L’obiettivo del socialismo rimane ma attraverso una graduale evoluzione, senza rotture rivoluzionarie, come astratto orizzonte. Nel congresso stesso di Livorno del Psi Turati, infatti, in un discorso fischiato (gli animi sono caldi) dirà: il bolscevismo fallirà nei prossimi anni.
I delegati che fanno riferimento all'area di Turati siedono a destra nel teatro, dicevamo. Nella platea -che è la parte più larga del teatro, la parte in cui siedono il maggior numero di delegati- siede invece il centro del partito che fa riferimento a Serrati e Lazzari. Questi delegati hanno una posizione diversa da quella turatiana: si proclamano per la dittatura del proletariato, rivendicano un'ortodossia marxista formale.
Nei palchi di sinistra siedono invece i delegati che usciranno dal teatro, dopo le frasi che vi ho letto di Bordiga, per andare nel teatro San Marco a costruire il Partito comunista.
La storia del movimento operaio è stata ampiamente falsificata dalla socialdemocrazia e dallo stalinismo. In particolare la storia del Partito comunista italiano è stata falsificata -se possibile- più di altri pezzi della storia del movimento operaio. Tanto che se ci si reca in una libreria e cercate dei libri sulla storia del Pci, il 90% sono libri che oscillano fra la falsificazione vera e propria e una ricostruzione dei fatti deformata. Se pigliamo l’opera più famosa, la monumentale Storia di Spriano, troviamo una ricostruzione puntuale (dal punto di vista della documentazione è uno dei testi migliori) ma ogni vicenda è vista con una lente deformante, che spesso rende minuscole le vicende di maggiore importanza, e viceversa. Mentre le opere di sinistra sono poche: c’è la storia del Partito comunista di Galli che è un'opera molto meno documentata di quella di Spriano (il libro è stato ripubblicato anche di recente). Galli quando l’ha scritto dava una lettura semi-bordighista.
Sui primi anni dopo Livorno c’è molto poco. C'è Del Carria, ad esempio: Proletari senza rivoluzione. Dà una lettura "marxista-leninista" (cioè maoista) della lotta di classe come lotta di popolo, in cui il partito ha un ruolo secondario rispetto alla "spontaneità" delle masse, ecc.
La versione prevalente - e di cui Spriano è il caposcuola- ci racconta che il Pci è "il partito di Gramsci e Togliatti". Ci basti qua dire che in realtà Gramsci e Togliatti hanno nel congresso del Psi che si fa in un teatro e nel congresso del Pcd'I che si fa nel teatro lì vicino a Livorno un ruolo assolutamente minimale. Tanto che Togliatti non c'è. Togliatti non partecipa né all’uno né all’altro. Togliatti è a Torino dove ha il ruolo di redattore capo dell’Ordine nuovo (che è diventato dal primo di gennaio di quell’anno quotidiano). Gramsci invece partecipa all'uno e all'altro congresso ma non interviene in nessuno dei due. Ci sono su questo varie versioni. Si dice che nel congresso del PSI non è intervenuto perché era già stabilito chi dovessero essere per la frazione comunista i delegati a intervenire. Interviene Bordiga, Terracini e il dirigente dei giovani. Gramsci in realtà -a differenza di quanto ci dice questa storiografia togliattiana- all'epoca aveva un ruolo assolutamente marginale. Il partito comunista che nasce a Livorno il 21 gennaio del '21 non è il partito di Gramsci e di Togliatti. E’ il partito comunista di Bordiga.
Comunque torniamo al congresso del Psi. Come si conclude? Con una votazione in cui vengono messe a voti tre mozioni (inizialmente erano più di tre comunque confluiscono su tre). La mozione congiunta di Serrati e di Lazzari prende 98.028; la mozione della destra, di Turati, prende 14.695 voti; la mozione dei comunisti, cioè di quelli che scissionano, prende 58.783 voti.
 
TEATRO S. MARCO, L'ALTRO CONGRESSO: NASCE IL PCD'I
L'ambiente in cui avviene il congresso di fondazione è particolare: il teatro San Marco è stato utilizzato durante la guerra come deposito di munizioni e non è più stato utilizzato come teatro. Piove, ci sono degli squarci nel tetto e i delegati stanno con l’ombrello in mano. Il congresso è molto breve: ci sono i saluti internazionali, c’è un intervento di alcuni operai, donne, giovani. Tutto si svolge in due sessioni. Si vota lo Statuto del partito, si decide che la sede centrale del partito sarà a Milano, c’è una discussione su quali saranno gli organi di stampa del partito (tra i quali viene assunto anche l'Ordine nuovo, ora quotidiano e fatto a Torino da Gramsci, Togliatti, Terracini, Tasca e altri). Vengono infine eletti gli organismi dirigenti.
Viene eletto un Comitato centrale di 15 membri (14 più il segretario dei giovani, che è Polano). I 14 membri sono: Bordiga, Grieco, Parodi, Sessa, Tarsia e Polano che si possono definire "bordighisti" in senso stretto; poi c'è un'area che invece proviene dal filone dei massimalisti di sinistra: sono Belloni, Bombacci, Gennari, Misiano e Marabini; poi c'è un altro settore, i cosiddetti milanesi: Repossi e Fortichiari, che hanno in realtà già all’epoca delle posizioni molto vicine a quelle di Bordiga (anche se entrambi a differenza di Bordiga non sono astensionisti). Tutti e tre i gruppi citati sono o di stretta osservanza bordighista o molto vicini a Bordiga. C'è infine un quarto gruppo che è costituito da quelli dell'Ordine nuovo di Torino, dai cosiddetti torinesi: sono Gramsci e Terracini. Ma in realtà Terracini -come dirà Gramsci negli anni successivi- già all’epoca di Livorno era fra il gruppo dell'Ordine nuovo il più vicino a Bordiga. In buona sostanza Gramsci entra nel Comitato centrale quasi da solo per quell’area di provenienza. Viene poi costituito un Esecutivo di cinque membri: sono Bordiga e Grieco per l’area bordighista stretta, Repossi e Fortichiari in rappresentanza delle due aree massimaliste e Terracini per quelli di provenienzaOrdine nuovo.

IL CONTESTO INTERNAZIONALE
Il contesto internazionale in cui nasce il Pcd'I è segnato da quattro vicende: la guerra; la vittoria della rivoluzione d'Ottobre; la sconfitta della rivoluzione in Germania; le scissioni nei partiti socialdemocratici negli altri Paesi europei e la costruzione sulla base di queste scissioni, prima o dopo queste scissioni, dell’Internazionale Comunista. Questi sono i quattro avvenimenti internazionali su cui fermeremo la nostra attenzione.
La guerra. Come si colloca il partito socialista italiano rispetto alla guerra? Il Psi ha una posizione un po’ diversa da quella delle altre socialdemocrazie. Mantovani ieri faceva riferimento al cosiddetto "4 agosto della socialdemocrazia", che è la data (nell'anno 1914) in cui il Partito socialdemocratico tedesco vota i crediti di guerra (compreso Liebknecht che si  differenzierà dopo, mentre nella prima votazione si disciplina). La socialdemocrazia vota i crediti di guerra -e cioè sostiene il governo borghese che manda il proletariato tedesco a scontrarsi col proletariato degli altri Paesi. Lenin e i comunisti (la sinistra socialdemocratica) assume quell'atto come il momento del passaggio della Seconda Internazionale all'altro campo di classe. Il Psi invece -unico tra i grandi partiti socialdemocratici europei- assume una posizione diversa. La maggioranza del partito ha posizioni differenti da quelle prevalenti nella Seconda Internazionale degenerata. La destra estrema del partito era già stata espulsa negli anni precedenti: si tratta della destra che avrebbe potuto votare i crediti di guerra. Sono i Bissolati e altri che erano già stati espulsi un paio di anni prima; mentre Mussolini viene espulso nell’ottobre del '14, quando compie una svolta improvvisa e passa a una posizione interventista. Tutto il partito, invece, compresa la destra restante (Turati) e con la sola eccezione (che poi vedremo) di quelli che in seguito faranno la scissione (cioè dei comunisti di Bordiga e Gramsci) partecipa alle due conferenze del '15 e del '16 a Zimmerwald e Kienthal (in Svizzera) che si pronunciano contro la guerra e da cui nascerà poi la "sinistra di Zimmerwald" che darà vita all'Internazionale Comunista.
Il Psi -ripetiamolo, eccezione nel panorama della socialdemocrazia europea- partecipa ed è anzi tra i promotori di queste due conferenze della sinistra socialdemocratica. Anche se gli italiani avranno a Zimmerwald e a Kienthal una posizione che non è quella di Lenin, cioè del "trasformare la guerra imperialista in guerra civile". Serrati in alcuni passaggi  voterà con Lenin ma con posizioni parzialmente diverse. In ogni caso, nell’insieme le anime del Psi partecipano a queste due conferenze pacifiste e la maggioranza del partito è contro la guerra.
Ma l'opposizione che il partito fa durante la guerra è un’opposizione passiva, non ci sono indicazioni alle masse, non c'è mai l’indicazione della costruzione dello sciopero generale e ciò nonostante il proletariato italiano dia vita durante la guerra a degli episodi di insubordinazione al governo e alla guerra borghese. Fra tutti ricordiamo l'episodio dall'agosto '17 a Torino, quando la città insorge.
I dirigenti del Psi vanno a Zimmerwald e Kienthal -quindi sono contro la guerra- ma la loro posizione è riassunta dal famoso slogan di Lazzari che è: "né aderire né sabotare" la guerra. E' uno slogan su cui si ritrova tutto il gruppo dirigente del partito perché poi ognuno dà la sua lettura, ponendo l’accento sul "non aderire" oppure sul "non sabotare". Ci sta anche Turati per un periodo, per lo meno fino a Caporetto; dopo Caporetto passerà invece alla posizione esplicitamente socialsciovinista e cioè: di fronte al pericolo per la patria (e nonostante le responsabilità della borghesia) bisogna che anche il proletariato si assuma i propri compiti di difesa.
Che cosa fa la sinistra del partito, quella che poi darà vita al partito comunista italiano? In realtà ha delle posizioni non molto nette -in particolare Gramsci. Gramsci ha una posizione piuttosto ambigua, qualcuno lo accuserà poi di collaborazionismo per un articolo che scrive nel 1914 sulGrido del popolo. In realtà nemmeno lì Gramsci prende una posizione interventista: fa un ragionamento più complicato, ambiguo -ma in ogni caso non prende una posizione chiara contro la guerra, perlomeno nel 14. Bordiga all'interno del partito è quello su posizioni più di sinistra, però all'epoca ha uno scarso peso: ha un ruolo relativamente importante all'interno della gioventù socialista, scrive sul giornale dei giovani alcuni articoli contro la guerra. Ma nemmeno lui prende esattamente la posizione di Lenin, nemmeno lui lancia la parola d'ordine "trasformare la guerra imperialista in guerra civile". Questo è lo spettro delle posizioni all’interno del Psi rispetto alla prima guerra mondiale.
Torniamo ora al contesto internazionale. Un secondo avvenimento fondamentale è la rivoluzione d’Ottobre. La rivoluzione d'Ottobre fa nascere nella nuova generazione anche in Italia il concetto "fare come la Russia". E' un concetto che plasma quella nuova generazione che darà vita al partito e che rompe la tradizione allora imperante della socialdemocrazia, quella per cui si poteva arrivare all'obiettivo del socialismo attraverso la lenta e graduale crescita nelle istituzioni borghesi, fino al passaggio indolore al socialismo. La rivoluzione d'ottobre dimostra che si deve e si può fare qualcosa di diverso.
Terzo elemento importante che segna lo scenario internazionale è la sconfitta della prima rivoluzione tedesca del '18-'19 che si conclude come è noto con l'assassinio dei due principali dirigenti comunisti, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht da parte del governo socialdemocratico contro cui hanno fatto fino all'ultimo opposizione. La rivoluzione tedesca viene sconfitta per due elementi soprattutto: in primo luogo per il tradimento della socialdemocrazia -che passa al campo avverso- costituendo un governo borghese di sinistra, in secondo luogo per l'assenza di un partito comunista radicato. La rivoluzione tedesca viene sconfitta perché i comunisti sono molto deboli, il loro partito formalmente nasce nel cuore degli eventi, venti giorni prima che Rosa Luxemburg e Liebknecht vengano assassinati (i comunisti ovviamente esistevano già, hanno fatto un lungo lavoro interno alla socialdemocrazia ma non dispongono di un proprio partito). Anche in Germania si costituiscano come in Russia i soviet (qui si chiamano Consigli degli operai e dei militari). Si dimostra cioè che la rivoluzione non è una specificità della Russia. Questo è importante perché abitualmente, nella ricostruzione di stampo socialdemocratico, si tende a parlare della rivoluzione russa come del prodotto di una serie di avvenimenti straordinari e irripetibili (la guerra, l'oppressione zarista, ecc.). Invece la rivoluzione avviene anche nel cuore dell'Europa capitalistica, in Germania.
Quarto elemento dello scenario internazionale che fa da sfondo alla scissione di Livorno sono le scissioni che avvengono in quegli stessi anni in Germania, in Francia, ecc. e danno luogo alla costruzione delle sezioni nazionali dell’Internazionale Comunista nei diversi Paesi. L’Internazionale Comunista formalmente viene costituita nel 1919, ma i suoi atti di nascita sono precedenti, sono nelle conferenze internazionali contro la guerra, quelle tenutesi in Svizzera e di cui abbiamo già parlato. L’Internazionale Comunista riceve un forte impulso a sua volta dalla rivoluzione di Ottobre ma non nasce dopo. L’Internazionale nasce nella battaglia contro le posizioni gradualiste dominanti all'interno della Seconda internazionale, nasce in una battaglia contro le posizioni centriste prevalenti nel Psi: l'ortodossia formale dei massimalisti, il richiamo alla dittatura del proletariato ma il non tradurre poi questo richiamo formale in propaganda e agitazione in situazioni che ne offrivano anche opportunità (difatti anche in Italia ci sono stati una serie di episodi che hanno avvicinato il Paese alla possibilità di una rivoluzione socialista).
Nasce, infine, l’Internazionale Comunista, nella lotta contro le posizioni ultrasinistre, settarie. GIà nel congresso del '20, il secondo congresso dell’Internazionale, in una commissione Bordiga presenta le sue tesi sulla questione del parlamentarismo in una commissione presieduta da Trotsky. Bordiga presenta le sue posizioni -che peraltro non sono quelle che abitualmente gli attribuisce la vulgata di un assoluto rifiuto di partecipazione alle istituzioni borghesi. Bordiga fa un ragionamento un po’ diverso, sostiene che nella fase della rivoluzione socialista (e sottolinea quindi che non è una generalizzazione) si devono abbandonare gli istituti della democrazia borghese. Contro queste posizioni l’Internazionale avanza com’è noto le tesi sull'intervento rivoluzionario nel parlamentarismo borghese, in cui si rivendica il fatto che i comunisti possano stare -anche in quelle fasi lì, come avevano fatto i russi- all’interno delle istituzioni borghesi: col fine però di rovesciarle e quindi di usare anche le istituzioni borghesi come trampolino di lancio e di costruzione del progetto rivoluzionario (cioè l'esatto contrario di quanto fa la socialdemocrazia revisionista).

IL CONTESTO NAZIONALE: IL "BIENNIO ROSSO"
Questo è il contesto internazionale che fa da cornice a Livorno. Segnato dalla guerra, dalla rivoluzione di Ottobre, dalla rivoluzione in Germania sconfitta e dalla nascita dell’Internazionale Comunista e delle sue sezioni come prodotto prevalentemente di scissioni nella socialdemocrazia. Ma c’è anche un contesto nazionale. Il contesto nazionale è quello del cosiddetto biennio rosso italiano, quello che va dal 1919 al 1920.
Perché viene definito "biennio rosso"? Tenete conto che la stessa Internazionale Comunista nel '20 dice che il Paese più vicino alla rivoluzione socialista è l’Italia. Adesso cercheremo di capire perché l’Internazionale Comunista si aspetta dall’Italia una rivoluzione socialista.
Il biennio inizia, si può dire, con i moti contro il caro-vita, i prezzi dei generi di prima necessità sono decuplicati e a La Spezia ha luogo una serrata dei grossisti di frutta contro un'imposta. Alla serrata risponde lo sciopero degli operai. Allo sciopero si verificano scontri con i carabinieri. E' questo l'episodio scatenante dei moti del 1919. Da La Spezia l'onda si estende a Genova (mezzo milione in sciopero), copre l'intero Nord, a Bologna si costituisce una commissione dei lavoratori di controllo dei prezzi. Scontri in ognuna di queste città. I carabinieri ammazzano i lavoratori nelle piazze. A ogni incidente si risponde con un nuovo sciopero, alimentato da nuova repressione. Questo al Nord, mentre al Sud c'è l'occupazione delle terre. E l'insieme di questi due elementi -il nord operaio e il sud contadino- trova un primo momento importante di saldatura il 20 e 21 luglio del '19, quando, in concomitanza con uno sciopero internazionale che è stato proclamato contro l'aggressione imperialista alla Russia dei Soviet, c'è una paralisi completa del Paese. Per due giorni l'Italia è paralizzata.
Sono anni di crescita politica e sindacale del movimento operaio. Vi cito alcune cifre perché mi sembrano indicative. La Cgl ha una crescita enorme: nel 1918 ha 250 mila iscritti, nel 1919 1 milione e 200 mila, nel 1920 2 milioni e 300 mila iscritti. E sul terreno elettorale, alle elezioni del novembre di quell'anno il partito socialista guadagna 156 deputati. Questa è la situazione, che è ovviamente il portato delle lotte che iniziano nell'estate del '19.
Avvengono altri due-tre episodi particolarmente importanti. Iniziamo con il cosiddetto sciopero delle lancette nella primavera del 1920. Cosa succede? Che la commissione interna di fabbrica (alla Fiat) si rifiuta di spostare l'orologio sull’ora legale, tre membri della commissione interna vengono licenziati e questo provoca uno sciopero a Torino e per quindici giorni la città è paralizzata. Tenete conto che in realtà dietro questa vicenda come spesso accade c'è qualcos'altro, c’è in particolare la questione dei rapporti di forza all’interno delle fabbriche. Si è sviluppato dall'autunno '19 in particolare a Torino, ma non solo a Torino, il movimento "dei Consigli" a cui l'Ordine Nuovo di Gramsci e il gruppo dei "torinesi" darà un contributo  importante di elaborazione teorica e anche di intervento politico all’interno del movimento stesso. La posizione di Gramsci e dell’Ordine Nuovo è quella di trasformare le commissioni interne di fabbrica, che sono un prodotto residuo, un lascito di qualcosa che si è costruito nell’epoca della guerra, nei consigli in consigli degli operai. Consigli che abbiano come caratteristiche principali quella di essere eletti da tutti i lavoratori al di là del fatto che aderiscano o no al sindacato e che siano per luogo di produzione e non per categoria. Su questi due elementi l'Ordine Nuovo elabora molto e in particolare Gramsci scrive degli articoli che io ho qui brutalmente sintetizzato in questi due concetti. E non solo produce un’elaborazione teorico-culturale ma interviene  all'interno del movimento: i redattori partecipano alle assemblee operaie e partecipano alla crescita di questo movimento che ha il proprio epicentro a Torino -e non solo perché è una grande città operaia, ma anche perché c'è il ruolo importante dell'Ordine Nuovo. Il Psi nazionale (di cui i torinesi sono sezione) ha invece un ruolo del tutto marginale e anzi parzialmente osteggia o comunque è indifferente al movimento dei consigli. Anche la sinistra del partito, Bordiga, li critica accusando Gramsci di spostare l'attenzione sui luoghi di produzione, sulla fabbrica, quasi pensando che sia possibile creare un potere alternativo all'interno delle fabbriche rimuovendo così -dice Bordiga- il problema del potere politico.
Ma torniamo alla sciopero delle lancette che nasce da quest'episodio apparentemente banale ma che in realtà ha al suo centro la questione dei rapporti di forza all'interno della fabbrica. Lo sciopero è isolato e fallisce. Lo sciopero è isolato dal partito stesso e tenete conto che l’Avanti!, cioè il quotidiano del Psi, si rifiuta di pubblicare un appello che la sezione torinese -egemonizzata appunto dall’area dell'Ordine Nuovo- lancia, un appello all'estensione dello sciopero nelle altre città.
Ma nell'estate del 1920 c'è una nuova esplosione della lotta (in realtà dal '19 al '20 si può dire che è tutto un susseguirsi di episodi di lotta, noi ci limitiamo a citare i più importanti). Un'altra lotta importante avviene con l'ammutinamento in alcune città, e tra queste ad Ancona. Leggiamo un brano del racconto che ne fa Del Carria. Siamo nell'estate del 1920 ad Ancona.
"Nella città è di stanza l'XI reggimento bersaglieri che deve partire nei giorni seguenti per l'Albania. (...) Vi sono tra i bersaglieri nuclei decisi di rivoluzionari (...). Sono proprio questi nuclei (...) che decidono un’azione concordata che deve avvenire il giorno dopo contemporaneamente tra i soldati e la popolazione quando il reggimento sarebbe sfilato per recarsi all’imbarco. (...) l'ammutinamento al mattino riesce, la caserma rimane in mano alle truppe: gli ufficiali sono imprigionati (...). Combattimenti con fuoco di fucileria e di mitragliatrice avvengono tra i soldati rivoltosi asserragliati in caserma e carabinieri e polizia assediati. (...) entrano in sciopero le maestranze del porto seguite da quelle dell’industrie. (...) viene così deliberato lo sciopero che del resto è già generale nella città. (...) Molti dei soldati ammutinatisi nella mattina escono dalle caserme armati e si affiancano ai lavoratori nella battaglia di strada. Vengono occupati dagli insorti i forti (...) sovrastanti la stazione ferroviaria (...) si combatte per moltissime ore durante la sera del 26. (...) Infine al mattino del 27 arrivano grossi rinforzi di Guardie Regie. (...) è tentato un attacco alla caserma dei carabinieri. E' a questo punto che si ha il tentativo di "pacificazione" fatto dai deputati Bocconi e De Ambris, tentativo che fallisce perché costoro vengono minacciati dai fucili degli insorti che non credono più nei loro dirigenti socialisti. (...) [Poi con] un cacciatorpediniere bombardano i forti in mano ai ribelli (...). Poi verso le 18 inizia l’attacco finale con l'appoggio di autoblinde: gli operai di Ancona resistono sulle barricate di Barriera Castelfidardo fino a che anche l’ultima mitragliatrice non diventa inutilizzabile. Ormai con la sera del 27 l’insurrezione è battuta. (...) Mentre viene vinta ad Ancona, l’insurrezione dilaga nelle Marche, nell’Umbria e nella Romagna. (...) Negli stessi giorni dell'ammutinamento di Ancona avviene l’insurrezione anarchica a Piombino (...). In seguito a 1500 licenziamenti il 5 giugno gli operai dell’ILVA issano sulla ciminiera la bandiera rosso-nera, occupano lo stabilimento e lo difendono armati per più giorni contro l'attacco di bersaglieri e carabinieri (...)."
Citiamo questi episodi di Ancona e Piombino che sono tra i più importanti di questo periodo ma che non sono isolati: si potrebbero citarne altri. Ciò  dà un'idea del clima che si respira: scioperi e manifestazioni hanno spesso un carattere di questo tipo, arrivando allo scontro violento di massa con gli apparati dello Stato borghese. E il ruolo del Psi non è quello di alimentare lo scontro, di cercare di dare uno sbocco, una traduzione a queste lotte ma invece è spesso quello del pompiere, di gettare acqua sul fuoco. E ciò vale per l'insieme del partito, dalla destra di Turati che ha in mano il gruppo parlamentare e un pezzo consistente dell'apparato; ma anche da parte della maggioranza di centro -o centrista come l’abbiamo definita- di Serrati e Lazzari.
C'è infine un ultimo episodio fondamentale che conclude per così dire il biennio rosso del '19-'20: è il settembre del 1920. Stavolta la vicenda nasce a Milano. Nel quadro che abbiamo delineato sopra, in questo continuo succedersi di scioperi, di lotte, di manifestazioni, in questi due anni di continua mobilitazione, succede che nel settembre del '20 i padroni tentano a Milano la prova di forza con la serrata. Da parte degli operai c'è la risposta con l'occupazione delle fabbriche. La Fiom stessa cerca di diffondere l'occupazione delle fabbriche non solo a Milano ma anche nelle altre città, anche se col solo scopo di imporre la riapertura la trattativa salariale. L'intero Nord è coinvolto in questi episodi di occupazione delle fabbriche, in particolare i due luoghi dove gli operai sono maggiormente organizzati e armati e difendono le occupazioni con le armi sono Torino e Genova. A Torino la produzione continua sotto il controllo degli operai che mettono com’è noto le  mitragliatrici sui tetti per difendere la fabbrica. In questa occupazione la sezione torinese del Psi (che è in gran parte raggruppata attorno all’Ordine Nuovo) ha un ruolo importante. Diversi dirigenti dell'Ordine Nuovo entrano nelle fabbriche, partecipano alle assemblee con gli operai. Uno dei principali dirigenti dell'Ordine Nuovo -tanto per dare l'idea della situazione- stabilisce il suo ufficio in quello che era l'ufficio dei dirigenti della Fiat. Si tratta insomma della punta più avanzata per certi versi del biennio stesso. E anche quest’episodio viene tradito dalle direzioni politiche e sindacali, dal Psi e dalla Cgl. Il 9 e 10 settembre si tiene a Milano una importante riunione congiunta della Direzione nazionale del Psi e della direzione della Cgl in cui D'Aragona (massimo dirigente del sindacato) dice: o questa occupazione delle fabbriche viene ricondotta all'interno di un percorso puramente sindacale (quindi non gli si dà una traduzione politica) o io mi dimetto; e minaccia le dimissioni dell’intero gruppo dirigente. La Direzione del partito fa un passo indietro, cioè dice: se questa è la situazione, se nemmeno la Cgl si assume il ruolo di dare uno sbocco politico a questo movimento, non possiamo essere noi a fare questo. E così ne approfittano per declinare ogni responsabilità rispetto ad una situazione in cui gli operai hanno nei fatti parzialmente in mano il potere, controllano le fabbriche, controllano in armi alcune grandi città.
Lo sciopero e l’occupazione del settembre del '20 si concludono così con una vittoria sindacale che corrisponde a una sconfitta politica. I lavoratori ottengono degli aumenti salariali notevoli (del 20%), viene loro pagata anche l’occupazione della fabbrica. Uno potrebbe dire: sono conquiste non da poco dal punto di vista sindacale. Certo, se non fosse che gli operai hanno tutto questo in cambio della rinuncia al potere che avevano quasi già nelle mani. Giolitti propone all'interno di questo pacchetto che conclude lo sciopero una commissione... per scrivere un disegno di legge sul controllo sulla produzione... Una commissione per scrivere un disegno di legge quando gli operai avevano già il potere nelle mani!

LA LEZIONE DEL "BIENNIO ROSSO"
Il biennio rosso si conclude con questo ultimo grande episodio dell’occupazione delle fabbriche e inizia allora quello che alcuni hanno definito il "biennio nero", il biennio successivo che si concluderà con il fascismo al potere.
Quali lezioni vengono tratte dalla vicenda del biennio rosso dall’Internazionale Comunista e dalla sinistra del Psi? Si tratta di lezioni fondamentali. L’Internazionale Comunista analizza il biennio rosso in particolare attraverso la penna di Trotsky (che all’epoca è la penna principale dell’Internazionale). C'è un brano importante di Trotsky, tratto da una relazione fatta in una riunione del Partito comunista russo, nel '22. Trotsky dice:
"Tra i lavoratori italiani, lavoratori di un Paese che aveva sofferto più duramente durante la guerra, un proletariato giovane privo delle qualità di un vecchio proletariato, ma anche delle caratteristiche negative di quest'ultimo -conservatorismo, tradizionalismo ecc.- tra questo proletariato, le idee e i metodi della rivoluzione russa avevano incontrato un enorme favore. (...) Nel settembre del 1920 la classe operaia italiana. in effetti, aveva assunto il controllo dello Stato, della società, delle fabbriche, degli impianti, delle imprese. Che cosa mancava? Mancava un’inezia, mancava un partito che, poggiando sul proletariato rivoluzionario, ingaggiasse una lotta aperta con la borghesia per distruggere i residui delle forze materiali ancora nelle mani di quest’ultima, prendere il potere e arrivare alla vittoria della classe operaia. In realtà, la classe operaia aveva conquistato, o virtualmente conquistato il potere, ma non c'era alcuna organizzazione capace di consolidare definitivamente la vittoria e così la classe operaia viene ricacciata indietro."
Questa è la lezione dell’Internazionale Comunista dalle vicende del biennio rosso: mancava il partito.
A una conclusione analoga arriva anche la sinistra del Psi. Nell'ottobre del '20 c'è una prima riunione a Milano della sinistra del partito in cui si decide che all'imminente congresso (che avrebbe dovuto essere a Firenze e poi viene sposato a Livorno per ragioni di sicurezza) la sinistra darà battaglia e lo farà sul nome del partito -che deve essere cambiato come chiede l’Internazionale-; sulla questione del programma -perché al nome corrisponde un programma e quindi va cambiato il nome perché va cambiato il programma: che non può più essere quello del Psi dei congressi precedenti. E infine darà battaglia sulla questione dell'espulsione dal partito dei riformisti -come l’Internazionale chiede non solo all’Italia ma in generale agli altri partiti socialdemocratici come condizione per aderire all'Internazionale. L'adesione sul programma dell'Internazionale implica infatti la rottura con i riformisti e il loro programma. Ciò per quanto riguarda l'Italia significa la rottura con la destra di Turati.
Poi il 28-29 novembre del '20 a Imola si tiene un'altra riunione della frazione in cui viene varata la piattaforma congressuale della frazione comunista. Bordiga in quell'occasione rinuncia alla "pregiudiziale astensionista", rendendosi conto che la sua posizione sulla questione del parlamentarismo non può essere posta alla base dell’intera frazione. E lo fa tra l’altro dopo essere stato a Mosca e aver discusso anche con i dirigenti dell’Internazionale. Non si tratta di una rinuncia definitiva alla sua posizione ma piuttosto di un compromesso momentaneo.
Seguono altri incontri in cui viene data una strutturazione anche organizzativa alla frazione.
Ci si prepara al congresso di Livorno. La scissione è largamente annunciata. Se voi leggete gli scritti sia di Gramsci che di Bordiga delle settimane precedenti al 21 gennaio del '21 vedete che dicevano in termini abbastanza espliciti: queste sono le condizione di adesione all’Internazionale, noi facciamo battaglia perché l’insieme del partito aderisca a queste condizioni. Il che -va da sé- tiene già in conto che ci sarebbe stata una scissione.
All’interno dell’Internazionale, in cui non sempre è conosciuta bene o in modo approfondito la situazione del Psi, c’è l'aspettativa di guadagnare alcuni altri pezzi del partito che potrebbero fare la differenza tra una scissione di minoranza e una scissione di maggioranza (che significava la sola espulsione della destra e di qualche altro pezzetto minore).

QUALE PARTITO NASCE A LIVORNO
E' utile dare qui alcuni numeri e alcune cifre sul partito che si costituisce nell’altro teatro di Livorno, nel teatro San Marco: il Partito comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale Comunista.
Alla fine del 1921 il partito ha circa 40 mila iscritti. All'inizio avevamo citato il numero di voti che aveva raccolto la frazione comunista al congresso del Psi: esattamente 58.783, ai quali andavano aggiunti quelli dei giovani socialisti. Dove sono finiti? Intanto non tutti quelli che hanno sostenuto la frazione comunista al congresso di Livorno aderiscono poi al nuovo partito: una parte importante sperava ancora a una ricomposizione unitaria con Serrati al congresso nazionale e quindi di fronte alla scissione non se la sentono di proseguire. L'altro elemento da tenere a mente è che anche gli altri partiti, anche il Psi, anche il sindacato iniziano a declinare numericamente e politicamente, perché è iniziata "l’onda nera".
Questi 40 mila iscritti sono prevalentemente al Nord. Può essere utile fornirvi un po’ di cifre (da Spriano) perché danno l’idea di dove si costruisce questo partito. Citando i nomi delle federazioni che superano i mille iscritti: Torino, circa 3700, Alessandria circa 2600, Novara-Vercelli circa 3300. Quasi un quarto del partito è in Piemonte, dunque. Poi in Lombardia le uniche due che superano i mille iscritti sono Milano (2411) e Cremona (1130). In Liguria Genova, circa 1500. Poi scendendo: Bologna (1597), Ravenna, circa 2100. In Toscana: Firenze con 2353, Massa con 1112. Se scendiamo a Roma vediamo che il partito ha, alla fine del '21, 843 iscritti; mentre a Napoli solo 396. E via via che scendiamo la penisola andiamo sempre in calando; al Sud sono tutte federazioni piccole.
Ma il numero più significativo è il numero di operai e di giovani.
Gli operai sono oltre il 90% degli iscritti al partito!
E per quanto riguarda i giovani, come dicevamo all'inizio i giovani del Psi avevano quasi anticipato la scissione nell'estate del 1920, avevano detto: sospendiamo la nostra adesione come organizzazione al Psi finché il partito non espelle i riformisti. La Federazione giovanile socialista, che era un’organizzazione in forte crescita (nel 1918 aveva 7 mila iscritti, nel '21 43 mila) aderisce quasi interamente al Pcd'I.
Altri dati significativi. Le donne sono solo 400 sui 40 mila iscritti. E' uno dei punti deboli evidentemente del partito ma non solo del Pcd'I, più in generale è bassissima la partecipazione delle donne alla vita politica.
Dei deputati del Psi solo 16 passano col nuovo partito. Come spesso succede nelle scissioni la stragrande maggioranza dei deputati e dell'apparato sta dall’altra parte, non sta con la sinistra.
Dal punto di vista dell'insediamento sindacale: nel febbraio del '21 (quindi subito dopo la scissione) c’è il congresso della Cgl. L'area vicino al Psi prende un milione e mezzo di voti; l'area vicina al Pcd'I 400 mila. Vedete quindi la sproporzione tra le due forze.
Dal punto di vista della stampa, il nuovo partito ha un paio di quotidiani: L'Ordine Nuovo e Il lavoratore. Il primo vende 40 mila copie, il secondo 16 mila. Poi ci sono anche diversi altri organi di stampa settimanali e quindicinali. Si tratta di cifre notevoli ma nettamente inferiori a quelle del Psi. Per darvi un termine di paragone: l’Avanti vendeva all'epoca 300 mila copie, di cui 50 mila solo a Torino.
Infine a ultimo dato. Il partito ha un piccolo apparato militare, ci sono alcuni depositi di armi (la linea dei comunisti non è mai stata quella della non violenza). Il partito ha seppur in modo abbastanza embrionale un suo servizio d’ordine, un suo apparato militare.

DUE DOMANDE SULLA SCISSIONE
Fermiamoci ora a riflettere sulla scissione, provando a rispondere ad alcune domande.
La prima: perché la scissione è minoritaria nonostante gli scissionisti abbiano il sostegno importante dell'Internazionale? I motivi sono vari. In primo luogo Serrati e Lazzari in realtà non si contrappongono all’Internazionale. Loro stessi rivendicano la propria adesione all’Internazionale e rivendicano addirittura i 21 punti di ammissione ad essa, dicendo che vogliono poterli "applicare nella realtà italiana che è particolare", vogliono cioè non rompere con la destra di Turati. Ma sul resto del programma, almeno a parole, si dichiarano d'accordo. E questo è un elemento importante perché fa sì che una parte degli iscritti al Psi (compresi tanti che avevano votato al congresso per la frazione comunista e poi non partecipano alla scissione) rimangano a guardare in attesa di una ricomposizione. Ma non è tutto. Pesa anche tanto la debolezza organizzativa della frazione comunista, che si è costituita poco tempo prima di Livorno (in quelle riunioni cui abbiamo fatto riferimento prima Milano, Imola, ecc.). Poi la frazione ha una scarsa diffusione sul territorio nazionale: è collocata soprattutto al Nord. Ma soprattutto la frazione che prepara la scissione ha una debolezza politica che è data dal fatto che la maggioranza del suo gruppo dirigente ha un atteggiamento fortemente settario. Partecipano a tutta la fase precongressuale  del Psi non con l’obiettivo di conquistare, di guadagnare un pezzo del partito alla scissione ma nei fatti più che altro con l'obiettivo (come potete vedere se leggete gli articoli di Bordiga di quelle settimane) di "bollare" i dirigenti centristi, di "condannare" i dirigenti riformisti e centristi, quasi di ergere uno steccato contro un pezzo del partito. Non solo -come è giusto- contro un pezzo del gruppo dirigente opportunista, ma anche contro un pezzo della base. In qualche modo confinandosi o trincerandosi e limitando in parte la possibilità di guadagnare altri settori del partito alla scissione. Infine, per rispondere alla domanda sul perché la scissione sia minoritaria, non bisogna trascurare il fatto che inizia ad esserci all’interno del movimento operaio una spinta unitaria di fronte al "biennio nero". Tenete conto che le azioni squadristiche sono iniziate già nel '19 abbiamo i primi episodi che nel '20 si moltiplicano. E di fronte al pericolo delle destre, per così dire, un pezzo del partito non capisce perché si debba fare una scissione. L’insieme dei questi elementi fanno sì che la scissione -nonostante abbia il sostegno dell’Internazionale Comunista- sia minoritaria.
Altra domanda: questo significa che la scissione è un errore?
C’è stato su questo un lungo dibattito anche storiografico per cui si sono attribuiti spesso a Gramsci stesso, o a Lenin, alcuni giudizi secondo i quali in definitiva era meglio non fare la scissione visto che si era minoritari. In realtà né Lenin né Gramsci hanno mai detto nulla del genere. Sia Lenin che Gramsci -anzi Gramsci riprendendo Lenin- dicono che la responsabilità della scissione minoritaria è dei centristi. C'è un noto discorso di Lenin in un dibattito dell'Internazionale in cui dice: voi Serrati e Lazzari della maggioranza del Psi avete preferito stare con i 14 mila di Turati e col gruppo parlamentare invece di scegliere la parte migliore dell’avanguardia operaia. Ripeto: sia Lenin che Gramsci dicono sempre: la scissione è minoritaria ma andava fatta.
Ciò non significa che l'Internazionale ignori il dato: sa che il nuovo partito è minoritario all'interno del sindacato, all'interno del movimento operaio italiano. E allora insiste sul fatto che, una volta fatta la scissione, il problema è quello di come guadagnare quella maggioranza. A fronte di questo il gruppo dirigente del Pcd'I, in mano a Bordiga, ha invece un atteggiamento settario anche dopo la scissione e tende a chiudersi sempre più al suo interno. l'Internazionale insiste invece sul "guadagnare la maggioranza". Tanto che quando nel settembre del '22 c’è la scissione del Psi e la rottura tra Turati e la maggioranza centrista, l’internazionale dice: adesso si pone il problema di una fusione tra il Pcd'I e il resto del Psi liberato dalla destra di Turati. In realtà a questa fusione non si arriverà mai per vari motivi: sia per il settarismo del gruppo dirigente del Pcd'I, sia per avvenimenti contingenti ma di un cero peso, tra cui l'arresto dopo poco di Serrati. In ogni caso Serrati e altri (i "terzini) aderiranno al Pcd'I nel 24.

UN PARTITO "AMMALATO DI TUTTE LE MALATTIE INFANTILI"
La debolezza principale del nuovo partito sta nel suo settarismo. Trotsky dice: questo partito "nasce ammalato di tutte le malattie infantili".
E abbiamo degli esempi importanti di questo settarismo. Alcuni li abbiamo citati con riferimento alla battaglia verso il Psi. Soffermiamoci brevemente su un'altra vicenda di un certo interesse: gli Arditi del popolo.
Nel biennio nero crescono le squadracce fasciste e con esse alcune forme di lotta allo squadrismo. Nell'estate del '20 nasce quest'organizzazione degli Arditi del popolo. Si tratta dell'organizzazione di una quasi spontanea difesa dalle azioni fasciste. A questa esperienza partecipano forze di diversa provenienza: specialmente anarchici, pezzi di base sia del Psi che del Pcd'I. Si costituisce un'organizzazione che ha un peso non irrilevante. Si tenga conto che le "Guardie rosse" che erano nate a Torino nel biennio rosso costituiscono in quel periodo lì negli Arditi del popolo un gruppo di trecento uomini armati. Gli Arditi danno vita alla difesa dai fascisti in diverse città. Il caso più noto è quello di Parma dove, nell'agosto del '22 gli Arditi del popolo respingono gli squadristi di Balbo difendendo la città con le barricate. Tanto che i fascisti per prendersi Parma devono mandare l'esercito perché non ci riescono da soli.
E altri episodi di resistenza si hanno anche nel Lazio, a Roma, a Civitavecchia, ecc. A questo movimento, come dicevo, aderiscono spontaneamente anche militanti dei due principali partiti operai, nonostante le indicazioni contrarie dei gruppi dirigenti. Il gruppo dirigente del Pcd'I, in particolare, ad un certo punto emana una direttiva per far fronte al fatto che pezzi consistenti dei propri militanti aderiscono agli Arditi, una direttiva di Bordiga in cui si dichiara l'incompatibilità tra l'adesione al partito e agli Arditi: l'unica organizzazione armata a cui si può aderire è quella del partito. Mentre l'adesione spontanea della base è evidentemente derivata dal fatto che il partito viceversa non organizza altro dal punto di vista della resistenza fascisti. E questo dà l’idea del modo settario con cui il gruppo dirigente bordighista si pone nei confronti di un'esperienza di massa, un'esperienza di reale fronte unico. Non a caso l'Internazionale criticherà ferocemente questa decisione di non aderire agli Arditi del popolo.
La battaglia contro il settarismo del nuovo partito si sviluppa nell'Internazionale, con particolare intensità al terzo congresso (1921) e nelle riunioni ad esso legate (esecutivi allargati, ecc.). Lenin e Trotsky danno battaglia contro il settarismo presente in diverse sezioni dell'Internazionale e nel Pcd'I. I due principali dirigenti russi polemizzano sia con Bordiga che con Terracini. Invitiamo i compagni a leggere gli scritti di Trotsky di quel periodo (sono anche stati ristampati da Massari col titolo Scritti sull'Italia).
C'è tutta una serrata polemica tra Trotsky e Terracini (che, vi ricorderete, proviene dall'Ordine Nuovo ma è su posizioni molto vicine a Bordiga) e sostiene la posizione del gruppo dirigente italiano, contraria alla tattica che l’Internazionale sta rilanciando in quel periodo, cioè la tattica del fronte unico e del governo operaio. Il Pcd'I in contrapposizione a questa tattica avanza una teoria che in seguito lo stalinismo in qualche modo riprese portandola all'esasperazione: la teoria per cui il Psi e più in generale la socialdemocrazia nel suo insieme costituisca l'ala sinistra della borghesia; dal che si fa derivare il rifiuto di ogni alleanza anche tattica col riformismo. L'Internazionale sviluppa una forte polemica contro queste posizioni sostenendo che il problema vero -tanto più in situazione come l'Italia dove i comunisti sono in minoranza nella classe- è viceversa quello di proporre forme di unità d'azione ai partiti riformisti, su alcuni punti precisi: di sfidare i dirigenti riformisti per evidenziare di fronte alla loro base il fatto che i dirigenti non hanno nessuna intenzione di praticare un'unità d'azione della classe, su un programma di classe, perché preferiscono ricercare l'unità con settori della borghesia.
Leggiamo adesso alcune righe di un discorso di Trotsky in polemica con Terracini a una riunione dell'Esecutivo dell'Internazionale, è del febbraio del 1922 . Trotsky dice, in polemica con un intervento appunto di Terracini che ha ribadito il rifiuto della tattica del fronte unico:
"Ebbene, gli operai che non entrano nel nostro partito e che non comprendono il nostro partito -ed è il motivo per cui non vi entrano- vogliono avere la possibilità di lottare per il pezzo di pane, per il pezzo di carne. Essi vedono il Partito comunista e il Partito socialista, e non comprendono perché essi si siano separati; essi aderiscono alla CGT riformista, al Partito socialista in Italia, ecc., oppure sono al di fuori del partito. Ed ecco, essi dicono che queste organizzazioni (... devono unirsi nella lotta). 'Ci si dia la possibilità di lottare per l’oggi!'. Non possiamo rispondere loro: 'Ma noi ci siamo separati per preparare il vostro futuro, il vostro grande dopodomani.' Essi non comprenderebbero, perché sono completamente assorbiti dal loro 'oggi' (...)." E Trotsky prosegue spiegando cosa dovrebbe allora fare il partito:
"Allora arriva il Partito comunista, che dice loro: 'Amici miei, ci siamo separati. Voi credete che sia uno sbaglio; posso spiegarvene le ragioni. Voi non le comprendete? Mi dispiace per questo, noi però adesso esistiamo, noi, comunisti e socialisti, e accanto a noi ci sono i sindacalisti riformisti e i sindacalisti rivoluzionari; esistiamo come organizzazioni indipendenti per delle ragioni che noi, comunisti, troviamo completamente legittime; malgrado tutto, però, noi, comunisti, vi proponiamo un’azione immediata per il vostro pezzo di pane: noi ve la proponiamo, a voi e ai vostri dirigenti, a ogni organizzazione che rappresenti una parte del proletariato."
E continua Trotsky: "Quando sentiamo Terracini dire che noi abbiamo altri metodi d'azione, che noi siamo per la rivoluzione e che essi [i riformisti] dal canto loro sono contro la rivoluzione, noi siamo completamente d'accordo con Terracini. Ma se questo fosse chiaro a tutti gli operai, non sarebbe neppure il caso di discutere del fronte unico. Certo che noi siamo per la rivoluzione e che essi sono contro: il proletariato, però, non ha capito questa differenza; bisogna dimostrargliela."
Abbiamo citato quest’unico passaggio di un dibattito che è molto intenso e avviene non solo con l'ultrasinistrismo italiano ma anche con posizioni simili che ci sono in altre sezioni dell’Internazionale. E questo dibattito caratterizza molto il terzo congresso dell'internazionale e in parte anche il quarto. Il Pcd'I però mantiene queste posizioni politiche di rifiuto del fronte unico e di chiusura settaria, cioè non si pone il problema della "conquista della maggioranza del proletariato politicamente attivo". Tanto che le tesi del Congresso di Roma (che avviene nel marzo del '22 e che è nei fatti il primo congresso del partito essendo stato quello di Livorno semplicemente una formalizzazione della scissione), tesi scritte da Bordiga prevalentemente, ribadiscono per intero la posizione italiana.
E l'Internazionale affida allora a Trotsky l'incarico di scrivere un testo di forte critica di queste tesi. Ma la battaglia dell'Internazionale non si ferma lì e il suo gruppo dirigente leninista si inizia a preoccupare di incoraggiare un pezzo del gruppo dirigente del Pcd'I che possa sviluppare una battaglia contro le posizioni ultrasinistre di Bordiga. In particolare viene individuato come possibile referente della battaglia in Italia Gramsci. Non è una novità: Lenin, come sapete, aveva già affermato da tempo, da prima di Livorno, che fra le varie posizioni presenti in Italia nella sinistra socialista quella più vicina a quella bolscevica era quella della sezione torinese del Psi, riferendosi in particolare ai testi sui Consigli pubblicati da Gramsci sull'Ordine Nuovo. Gramsci è per un periodo a Mosca e ha una frequentazione quindi del gruppo dirigente dell’Internazionale e di Trotsky specialmente che ha un ruolo importante nella sua "conversione" politica. Ma a questo punto dobbiamo fare un passo indietro, dando uno sguardo al dibattito internazionale che contraddistingue la fase in cui inizia questo avvicinamento ulteriore di Gramsci al bolscevismo e la sua decisione di intraprendere la battaglia contro il gruppo dirigente italiano.

LA BATTAGLIA DI LENIN E TROTSKY CONTRO LA BUROCRAZIA
In quegli anni inizia in Russia la cosiddetta ultima battaglia di Lenin, che è quella che è conosciuta attraverso il testamento. Negli ultimi mesi di vita Lenin è a letto ammalato e inizia a combattere una battaglia contro Stalin (a partire dalla discussione sulla questione georgiana). Lenin -a partire dal dibattito sulla questione delle nazionalità- sviluppa una battaglia e lo fa in modo molto feroce e senza cercare un compromesso con il suo avversario di quel momento, cioè con Stalin. Lenin intuisce (da una serie di altri episodi che qui non possiamo richiamare per ragioni di tempo) il fatto che si sta avviando in Russia una degenerazione di quella burocrazia di cui lui ha parlato per primo.
La burocratizzazione è in parte un elemento naturale dopo una rivoluzione, tanto più dopo una rivoluzione che è avvenuta nelle forme particolari in cui è avvenuta in Russia e che si sta sviluppando nell’isolamento internazionale e che ha necessità di costruire un proprio apparato all’interno del quale inevitabilmente si costruiscono delle primitive forme di burocrazia, quasi fisiologiche. Lenin aveva presente che questo problema in Russia ha uno sviluppo vertiginoso e inizia a capire che questa deriva burocratica ha fra i suoi dirigenti proprio Stalin. Così dal letto di morte sviluppa la sua ultima battaglia e detta quella serie di appunti che conosciamo come il suo Testamento. In questi testi dettati alla segretaria Lenin esprime dei giudizi sul gruppo dirigente del Partito comunista russo: E a un certo punto afferma che vi è la necessità di togliere a Stalin gli incarichi di primaria responsabilità che ha, tra cui quello di segretario del partito (anche se all’epoca, non dimentichiamolo, l’incarico di segretario non era come lo possiamo immaginare noi oggi ma era comunque un ruolo importante nell'apparato del partito). Bisogna emarginare Stalin, dice Lenin, non perché sia Stalin il male ma perché Stalin può incarnare una certa tendenza negativa. Poi Trotsky lo dirà meglio di Lenin -perché ha avuto modo di seguire il seguito della vicenda, mentre Lenin muore nel gennaio del '24. Stalin è l'uomo che può far sviluppare questa burocrazia nel partito e nello Stato.
Che cos'è questa burocrazia? Riprendiamo qui l'analisi di Trotsky (perché Lenin, ripetiamo, inizia solo a capire il problema perché il problema inizia appena a svilupparsi). La burocrazia nasce da una serie di fattori. In primo luogo l’isolamento della rivoluzione russa. L’isolamento della rivoluzione russa nei primi anni Venti non è il prodotto della malvagità di Stalin, evidentemente: è il prodotto del tradimento della rivoluzione in altri Paesi consumato dalla socialdemocrazia (pensiamo alla Germania, al fallimento della rivoluzione in Italia). Questo isolamento della rivoluzione è per tutto il gruppo dirigente bolscevico un elemento da superare -e l’Internazionale nasce appunto con il compito di sviluppare la rivoluzione su scala mondiale (i comunisti russi e tutto il gruppo dirigente Stalin compreso fino ad un certo periodo non hanno mai pensato che si potesse costruire il "socialismo in un Paese solo", questa farneticante "teoria" nasce molto dopo, a giustificazione e copertura della pratica politica della burocrazia). Ma questo isolamento si combina in Russia con una situazione particolare: la smobilitazione dopo la guerra civile (cinque milioni di uomini armati che smobilitano), una situazione di riflusso e di stanchezza delle masse, la miseria e una serie di elementi che favoriscono il riflusso dall'attività politica e fanno contemporaneamente emergere alcuni privilegi per settori dirigente. Privilegi che all'inizio sono minimi: non c'è ancora una burocrazia sviluppata, non ci sono ancora le dacie, ecc. che vedremo in seguito. Ma certo la posizione di chi dirige il partito e lo Stato offre alcuni vantaggi. Privilegi che Lenin si sforza per primo di contrastare, anche simbolicamente, anche col proprio esempio personale.
Ricordiamo alcuni episodi. Una sera Lenin va a teatro (a vedere un'opera di Gorky) e quando lo vedono arrivare il direttore del teatro gli fa liberare subito delle sedie in prima fila, facendo alzare quelli che erano seduti. Lenin non solo rifiuta questa cosa e se ne va seccato; ma poi manda una lettera di provvedimento disciplinare contro il direttore. Citiamo questo episodio ma ce ne sono molti altri che indicano come Lenin si preoccupi, a partire dal proprio esempio, di dimostrare che avere ruoli dirigenti non significa godere di privilegi. Ma uno strato di dirigenti, invece, non solo accetta i piccoli privilegi ma si sforza di farli diventare grandi privilegi. Ed è così che si sviluppa una burocrazia, uno strato dei gruppi dirigenti che comincia a vedere il proprio ruolo, i propri interessi, al di sopra dei compiti di direzione e degli interessi generali della lotta.
Negli anni seguenti, questa burocrazia che si è sviluppata a partire dell'isolamento della rivoluzione russa, comprende di aver bisogno dell’'isolamento della rivoluzione per crescere e riprodursi. Succede così che l'isolamento, da fatto imposto dalla situazione della lotta di classe internazionale, diventa un obiettivo preciso della burocrazia, che sottomette a questo obiettivo la stessa Internazionale -nata con lo scopo opposto. La burocrazia sa che se ci fossero rivoluzioni negli altri Paesi ciò metterebbe in discussione in primo luogo la supremazia del Partito comunista russo e questo a sua volta potrebbe provocare a cascata una battaglia politica contro la burocrazia stessa.
Abbiamo qui condensato in poche frasi un processo lungo che a metà degli anni Venti è ancora allo stato embrionale ed è difficile quindi per Lenin immaginare quello che sarà il suo sviluppo. La battaglia di Lenin la continuerà, come sappiamo, Trotsky.

GRAMSCI DA' BATTAGLIA CONTRO BORDIGA; MA TACE SUL "DIBATTITO RUSSO"
Torniamo ora a Mosca, dove abbiamo lasciato Gramsci che si sta convincendo della necessità di aprire una battaglia contro Bordiga. E lo fa -appunto- mentre nell'Internazionale e nel partito russo è iniziata la battaglia di Stalin contro Trotsky. Come si colloca Gramsci in questo dibattito?
Il  9 febbraio del '24 Gramsci scrive una lettera in cui prendendo posizione sull’avvio del dibattito russo dice che rispetto alla rivoluzione d’Ottobre l'unico che aveva le posizioni giuste era Trotsky -almeno fino a quando Lenin torna in Russia e con le "Tesi di aprile" riorienta il partito. Così pure in passaggi successivi della rivoluzione Kamenev e Zinovev (che ora costituiscono la maggioranza con Stalin contro Trotsky, la cosiddetta trojka) prendono posizioni sbagliate (il riferimento è al fatto che entrambi sono in disaccordo con i tempi dell'insurrezione che il partito sta preparando -e lo dichiarano sulla stampa).
Si tratta di una lettera in cui, con chiarezza, Gramsci rivendica a Trotsky una posizione e un ruolo nella rivoluzione che viceversa la trojka sta iniziando a mettere in discussione, facendo una prima "revisione" della storia.
Dopo questa lettera Gramsci tace sul "dibattito russo" dal '24 al '26. Salvo qualche intervento nel dibattito del Pcd'I in cui usa strumentalmente le vicende russe per polemizzare con Bordiga che è invece uno dei pochi in Italia a prendere le difese di Trotsky e della sua posizione.
Il silenzio è rotto nel 1926, con una lettera che Gramsci scrive a nome dell'Ufficio politico italiano al Comitato centrale del partito russo. Si tratta di un episodio che è stato spesso deformato nella ricostruzione storica stalinista e riformista: nella seconda parte di questa relazione -quella specificamente dedicata a Gramsci e al gruppo dirigente italiano- lo vedremo meglio [per ragioni di spazio la seconda parte a cui si fa riferimento non è riportata in questa newsletter, chi fosse interessato a leggerla può farcene richiesta].
Dicevamo: in Russia si sta sviluppando lo stalinismo, Gramsci inizia in quel periodo lì (quindi un po’ in ritardo, per così dire) la battaglia di Trotsky e di Lenin contro le posizioni ultrasinistre all’interno del Pcd'I, mentre lo scenario internazionale sta mutando; e la sua battaglia ha un esito vincente con il congresso di Lione, nel 1926. Qui i rapporti di forza all’interno del partito sono completamente rovesciati e le tesi di Gramsci prendono un po’ più del 90% e quelle di Bordiga la percentuale minima restante. Si tenga conto che fino all’anno prima la stragrande maggioranza del partito è ancora con Bordiga. Com’è che succede questa cosa? Abbiamo detto che Gramsci è stato convinto dai dirigenti russi a fare una polemica contro posizioni che lui non condivideva pienamente neanche in passato ma contro cui non ha mai dato battaglia perché all’inizio aveva un ruolo secondario e in ogni caso se ne stava in disparte: contro le Tesi di Roma (1922), ad esempio, lui non dice nulla. Com’è allora che riesce a prendere il 90% in così poco tempo? I motivi sono molti. C'e intanto da considerare il sostegno dell’Internazionale Comunista. In secondo luogo non è indifferente alla vittoria di Gramsci anche l'uso di metodi congressuali non propriamente democratici: è vero che il congresso avviene a Lione perché in Italia c’è il fascismo; abbiamo quindi la necessità di un percorso inevitabilmente non pienamente democratico. Ma vengono utilizzati da Gramsci e dagli altri dei metodi che vanno oltre le necessità di un congresso in clandestinità. Ad esempio alcuni dirigenti bordighisti in fase congressuale vengono sospesi dal patito.
Le tesi politiche del Congresso di Lione sono la punta più avanzata del comunismo italiano, quella più vicina al marxismo rivoluzionario. Diciamo "più vicina" perché noi a differenza di altri non siamo per presentarle come la rivelazione del trotskysmo italiano. ecc. Le Tesi si sviluppano su due direttrici. Contro il riformismo in primo luogo, e difatti non sono assimilabili nemmeno in seguito dal riformismo. E' difficile che vengano citate dai riformisti, che preferiscono citare iQuaderni del carcere. Questo perché non c'è una sola parte di queste tesi che possa essere richiamata a difesa di posizioni riformiste. Le Tesi infatti affermano che la rivoluzione italiana sarà una rivoluzione socialista. Dicono che il ruolo dirigente nella rivoluzione spetta al Partito comunista. Dicono che la classe operaia deve mantenere la propria indipendenza dalla borghesia: e deve farlo anche a fronte del fascismo -pur essendo possibili dei fronti unici con le forze socialiste e riformiste, ma in chiave tattica. E' esclusa ogni idea di "fronte popolare" o di governi con la borghesia "progressista". Si indica, nel percorso rivoluzionario, la necessità della "rottura" della macchina statale e dell’insurrezione. Quindi voi capite che difficilmente dei riformisti possono identificarsi nelle tesi di Lione le tesi. Al contempo nelle Tesi si sviluppa una battaglia su una seconda direttrice: contro il settarismo e l'ultrasinistrismo. Difatti al centro del testo c'è il problema della conquista della maggioranza del proletariato, a partire dall'uso della tattica la tattica del fronte unico e soprattutto a partire dall'utilizzo del programma transitorio. Per la prima volta in Italia si utilizza questo concetto -che com’è noto non ha inventato Trotsky nel 1938 scrivendo il Programma di Transizione, bensì è un concetto già presente in Marx e al bolscevismo che lo ha utilizzato per diventare maggioranza nel corso del '17 (sviluppando all'interno delle lotte quel ponte tra la coscienza delle masse e la necessità della rivoluzione socialista).
Quindi Gramsci vince a Lione e il paradosso è questo: che Gramsci porta il Pcd'I per la prima volta quasi integralmente sulle posizioni di Lenin e Trotsky -e contro quelle di Bordiga- proprio nel momento in cui Bordiga è l’unico a sostenere sul piano internazionale, seppure nei suoi modi, le posizioni di Lenin e Trotsky. In altre parole: Gramsci guadagna la maggioranza del suo partito a posizioni quasi bolsceviche nel momento in cui i bolscevichi perdono la maggioranza del partito russo.

IL PCD'I DOPO LIONE
Quanto alle Tesi di Lione, rimarranno largamente sulla carta perché gran parte del gruppo dirigente sarà arrestato poco dopo. Gramsci stesso alla fine dell’anno finisce i galera e c’è un processo di scomposizione del partito, duramente attaccato dai fascisti.
Il gruppo dirigente che si costituirà intorno a Togliatti parteciperà al processo di stalinizzazione di tutte le sezioni dell'Internazionale. Cioè di assimilazione di ogni partito alle necessità della burocrazia moscovita, in una prima fase; prima che si sviluppi nei decenni successivi una propria burocrazia inserita negli Stati borghesi.
Il processo di stalinizzazione avviene nel '28-'29. Sono gli anni in cui l'internazionale compie una apparente svolta a sinistra. Riprende cioè (lo citavo prima) un pezzo del classico ragionamento degli ultrasinistri, di Bordiga, riformismo come "ala sinistra della borghesia" e lo si porta alle estreme conseguenze. Si dice: siccome è imminente una fase rivoluzionaria, la socialdemocrazia svolge un ruolo controrivoluzionario, è sorella gemella del fascismo. Questa linea porterà più avanti, in Germania, a dire che è meglio che vinca il fascismo perché così la classe operaia finalmente capirà e insorgerà. Tutto ciò porta alla distruzione del Partito comunista tedesco, uno dei più grandi d'Europa.
A questa svolta a sinistra ne seguiranno, secondo un percorso a zig-zag, altre a destra. La più importante di queste è quella verso i governi di fronte popolare. Intendiamoci: queste svolte e controsvolte non sono il frutto di differenti elaborazioni politiche o teoriche: sono piuttosto semplicemente la copertura, di volta in volta, degli interessi della burocrazia moscovita. E in ogni caso questi zig zag avvengono nel processo complessivo di una deriva a destra dell'internazionale comunista che conduce alla collaborazione di classe.
Per tornare alla svolta ultrasinistra. Essa fa maturare in Italia un'opposizione nel partito. Gramsci, come abbiamo visto, è già in galera. La battaglia verrà avviata e condotta dai "tre", cioè da tre dirigenti di primo piano: Tresso, Leonetti e Ravazzoli. Dietro di loro, ovviamente, c'è una parte del partito. Essi rivendicano contro la nuova linea le posizioni dei primi congressi dell’Internazionale, cioè le posizioni di Lenin e Trotsky. Dicono: queste teorie sono incompatibili con le basi fondanti dell’internazionale comunista. Nel '30 saranno espulsi dal partito e costituiranno la Nuova Opposizione Italiana (Noi) che avrà vita breve e travagliata. Nell’emigrazione parteciperanno al dibattito dei trotskysti francesi.
La Nuova Opposizione Italiana assume dunque la battaglia di Trotsky in Italia e pur nella brevità della sua vita lascerà una semina che, dopo una interruzione di fatto, fiorirà a metà degli anni Quaranta per dare vita al processo di ricostruzione anche in Italia di un’organizzazione legata alla Quarta Internazionale.
Mi avvio allora a concludere, perché ci stiamo avventurando verso temi che non riguardano l'ambito circoscritto di questa relazione.

DI CHI E' L'EREDITA' DI LIVORNO?
Chi può rivendicare oggi l'eredità della scissione di Livorno e della nascita del Pcd'I?
Il Pcd'I nasce - perché in Italia manca un partito che voglia portare le masse alla conquista del potere politico. Quindi togliendo dalla scissione di Livorno questo... piccolo dettaglio... si rimuove il senso per cui è nato il Pcd'I.
Per mascherare questo fatto gigantesco si ripropongono (non è una grande novità, davvero) i discorsi sulla rivoluzione russa come "specificità" (negati peraltro dagli atti fondanti di tutti i partiti comunisti e dall'Internazionale dell'epoca) e si scodella la minestra rancida delle presunte teorizzazioni di Gramsci sulla "rivoluzione in Occidente" intesa come graduale riforma del capitalismo.
Ci limitiamo qui a dire che Antonio Gramsci non ha mai teorizzato una "rivoluzione in Occidente" contrapposta alla rivoluzione bolscevica. Ripetiamolo: il Pcd'I -in questo senza differenze tra Bordiga e Gramsci- nasce come partito per il potere operaio, come partito che si propone, attraverso la rivoluzione socialista, di instaurare la dittatura del proletariato.
Gramsci ripeterà questo concetto decine di volte, in decine di articoli. Per fare un esempio: nel primo articolo che Gramsci scrive subito dopo Livorno dice: quale è il senso di questa scissione? E' quello di dotare la classe operaia italiana di un partito che rompa una volta per tutte con il gradualismo, col ministerialismo, con le posizioni traditrici di tutti coloro che sostengono che lo scopo dei partiti operai sia quello di andare al governo con la borghesia. E contemporaneamente noi rompiamo con quelle posizioni che viceversa, pur riconoscendo come scopo la dittatura del proletariato (fa riferimento qui ai massimalisti di Serrati e Lazzari) non conducono a questo fine le lotte -e proprio nel momento in cui le lotte ci sono e hanno (come in Italia nel biennio rosso) un carattere rivoluzionario, e gli operai occupano in armi le fabbriche, ecc.
Il Pcd'I, dice Gramsci, nasce allora come partito per la conquista del potere; e come nuova direzione in lotta tanto contro il riformismo come contro il centrismo.